Pino Corrias per “la Repubblica”
Nadia Toffa era una donna che sembrava una ragazza. Era una ragazza che sembrava una roccia. Ma una roccia sottile, bionda, con gli occhi scuri, il sorriso chiaro. E il sorriso era la sua luce: "Ho energia da far impallidire la Via Lattea".
Se il fine vita è una clessidra che si svuota, Nadia l' ha riempito di parole. Le parole ora formano un libro, si chiama Non fate i bravi (edizioni Chiarelettere) esce a metà settimana. È la sua ultima collana di pensieri. E dentro i pensieri ci sono parole come: "respira"; "senti i profumi"; "incrocia le braccia e dondolati"; "consolati"; "ridi"; "colleziona sogni"; "colleziona nuvole". E poi: "Arrabbiati". "Fai paura alla paura. Accecala. Affrontala".
Lo ha scritto nell' anno del silenzio, l' ultimo. Lo ha scritto per salutare e salutarsi, gentilezza finale concessa dalla malattia che le ha portato via prima i capelli, e poi la vita. Ma lasciandole il tempo di tramandare qualcosa che non fosse solo lacrime o il vuoto d' ombra nella memoria di chi resta. Scrive: "Il vero viaggio è quello dell' anima, il resto è di passaggio, ha una data di scadenza". E dunque: "Stammi vicino e non avere paura".
Vivendo in pubblico, ha scelto di morire in pubblico. I coglionauti le sono saltati addosso. Lei li ha scansati. Li ha canzonati. Perché rimanere in superficie, senza nascondersi, non era una gratuita esibizione, ma il suo modo migliore di mettersi al riparo dalla solitudine: "Mi butto per non buttare la vita". Con la forza di non lasciarsi spaventare da una parola nera e possente come la parola "cancro". Ma anzi di mostrarla, di farla rotolare davanti a sé, anche se le era arrivata addosso, sorprendendola alle spalle, come fa il destino.
L' ha accettato senza rassegnarsi mai, in piedi, con le braccia conserte: "Una piccola parte della vita sono eventi che accadono, tutto il resto è come reagisci".
Lei ha reagito senza mai chiudere gli occhi, da quando due anni fa, in una camera d' albergo di Trieste, si è sentita male per la prima volta, precipitando in un istante nella sentenza pronunciata dal medico. E dopo quell' istante, nel mondo nuovo, capace di cancellare per sempre quello vecchio.
Ha reagito alla chemio che sembrava averla guarita. Con la parrucca è tornata in tv a dire che il suo inverno stava fiorendo. Non aveva perso la speranza. Ha sorriso. Ha provato a ricominciare il suo lavoro di prima, a caccia di storie, che era il suo modo di rimettersi in cammino. A prendersi gli abbracci, a godersi gli applausi.
Poi ha reagito alla ricaduta, alle nuove cure, al dolore che diventa insopportabile, al calendario sempre più corto. Così corto da diventare prezioso, come i pensieri che ci tengono svegli, che annotiamo anche di notte. Scrive: "Il dolore ci rende più profondi, più forti. Non deve sopraffarci, dobbiamo girargli intorno per avere un controcampo". E poi: "Voglio un bene inesauribile alla vita", che è "leggera come la pietra pomice, sembra pesante, ma galleggia".
Nadia Toffa la vita l' ha navigata al timone che ha fabbricato in proprio, "non arrendetevi mai prima del traguardo". Veniva da Brescia, famiglia di media borghesia, madre amica, infanzia allegra, la scuola ben fatta, il liceo, poi l' università sino alla laurea in Legge. Sveglia, curiosa, voleva fare la giornalista fin da ragazzina, non l' avvocato in tailleur, ma l' inviata di strada. Esordio nelle tv locali. Il salto grande nel 2009, dentro la squadra d' assalto delle Iene. A maneggiare, in giacca nera e camicia bianca, angoli di mondi contundenti, inchieste su camorra e droga, passando per le trincee della guerra, l' inferno dei profughi, gli abissi senza rimedio dei massacri veri. "Bisogna adottare i deboli per vivere, volere giustizia in un mondo sbagliato.
C' è chi recita, chi scende in campo, chi sta sugli spalti applaude e giudica". Scrive: "Ho viaggiato a 3000 chilometri all' ora. Sono stata di notte nelle strade di Caracas. E in Iraq a poche centinaia di metri dalle bandiere nere dell' Isis"
Ha visto e ha raccontato. Anche quando la schermo si è capovolto su di lei. L' hanno insultata, derisa, offesa, ma senza mai sfiorare la sua soglia: "Scimmie che saltellano qua e là. Alzano la voce. Ignoranza dilagante. Fogna a cielo aperto. Che olezzo assordante". E poi: "Ci vendicheremo diventando amici dei nostri nemici".
In questo diario intimo, ha scritto una sola volta la parola malattia.
Non aveva più tempo di recriminare sul passato, che è passato per sempre, sulle medicine che non funzionano, sugli amici che non si fanno mai vedere piangere. Sul corpo che si svuota. Non aveva più voglia di compatirsi, ma solo di guardare avanti. E ringraziare la madre, gli amici, la vita: "Abbiamo la vastità del mare negli occhi. E insieme, pur essendo solo due granelli di sabbia, abbiamo la potenza di creare una perla".
Una perla è stato il suo funerale in pubblico, officiato senza retorica, dai suoi cento compagni di lavoro che la chiamavano guerriera. E una perla è questo suo ultimo rendiconto del viaggio, con lunga coda di lacrime e un piccolissimo insegnamento a rafforzare il disarmato coraggio di chi resta.
Ci lascia, lasciandoci andare. Scrive: "Mi nasconderò in un pezzo di vetro, minuscola particella di un desiderio sprecato, mai espresso. Rimarrà sospeso nel pianeta dei pensieri. Mi troverete là".
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