Da Vanity Fair
«È importante quello che è successo grazie al #MeToo. Ed è grandioso quanto sta accadendo nella nuova percezione del corpo femminile. Ma va fatto un distinguo, perché io rivendico il mio corpo come oggetto del desiderio. E nessuno può né deve dirmi quello che devo o posso fare col mio corpo. In queste foto, per esempio, mi sono presentata nuda. Che bisogno c’era, direbbe qualcuna. La mia risposta è semplice: a 55 anni non ho nessuna intenzione di nascondermi in casa. Non riesco proprio a sentirmi vecchia, anzi, mi sento completamente in pista, nel mondo, con la voglia di essere nuda, amata, desiderata. E di amare e di desiderare».
Così Isabella Ferrari spiega a Vanity Fair, che le dedica la copertina del numero in edicola da mercoledì 30 ottobre, la decisione di posare nuda. L’intervista con il direttore Simone Marchetti avviene sulla riviera romagnola, dove sta girando il film che chiude il cerchio del suo primo, travolgente successo, il mitico ruolo di Selvaggia. «Sto girando Sotto il sole di Riccione, scritto da Enrico Vanzina e diretto dal duo Younuts. Non si può certo considerare un sequel di Sapore di mare (diretto nel 1983 da Carlo Vanzina, ndr). Però a me piace pensare che lo sia. Perché interpreto il ruolo che fu di Virna Lisi. E perché finalmente questa volta mi fanno fare la parte della vecchia. Una liberazione. Perché oggi sono più tranquilla. Sul set. Nella vita. In tutto».
Quando uscì il film che la rese famosa, Isabella aveva appena 19 anni; a soli 17 era arrivata da Piacenza a Roma, dove era stata lanciata da Gianni Boncompagni e aveva avuto con lui una storia. «Scoppiò lo scandalo», ricorda. «Mia madre e la mia famiglia, però, non erano scandalizzati. Siamo contadini e l’unica vera eleganza che conoscevamo era lavorare la terra. Mi hanno sempre lasciato molto libera e non mi hanno mai giudicato. Il pregiudizio e lo scandalo, invece, li ho trovati fuori: nella società, nei media, nell’ambiente dello spettacolo. Sono sempre stata travolta dallo scandalo, fa parte del mio karma e ormai ho imparato ad accettarlo».
Ma la popolarità, improvvisa ed esplosiva, non la rese felice. «Subito dopo l’uscita di Sapore di mare», racconta a Vanity Fair, «ho conosciuto la depressione. Non ero pronta a quel successo. Quando scendevo per strada, tutti mi chiamavano Selvaggia, non potevo più fare nulla da sola. Ricordo che avevo l’abitudine di andare in chiesa, per me cresciuta a Piacenza era normale entrare in parrocchia, era il nostro riferimento. Insomma, entro in una chiesa di Roma e il giorno dopo escono le foto su un giornale scandalistico travisando le mie intenzioni. Ero una bambina.
Una bambina travolta dal successo. Ero arrivata a Roma coi soldi della Prima Comunione e della Cresima, tre milioni di vecchie lire. Mi muovevo con una 112 azzurra usata e iniziavo a guadagnare bene. Ma nonostante tutto ero infelice e turbata. Capivo che non riuscivo più a gestire la situazione. E i paparazzi. E i produttori. Dovevo fare qualcosa. Andai in analisi. Di quel periodo ricordo di aver lavorato molto sui miei sogni. Il sogno più ricorrente era di venir travolta da un tram, da un autobus mentre attraversavo piazze immense. Col tempo, ho imparato ad accettare il mio destino, un destino di tram e autobus che mi avevano travolta. La svolta, però, arriva sempre quando capisci che sei tu a poter disegnare un destino tutto tuo. Io ci sono riuscita osando.
Soprattutto col mio corpo, strumento che all’inizio avevo vissuto come un limite alla mia intelligenza o al mio talento. Il mio corpo è servito come un racconto. Della violenza dell’uomo sulla donna. Dell’amore del maschio per la femmina. Per narrare le donne che si separano, che sono troppo magre, che hanno bisogno di essere raccontate. Di fronte a una grande storia, di fronte a un grande regista il mio corpo è diventato una tela bianca su cui proiettare tutto. Senza se e senza ma».
L’altro periodo buio della sua vita, di cui non aveva mai parlato prima dell’intervista a Vanity Fair, è avvenuto in tempi molto più recenti. «Qualche anno fa succede che una mattina mi sveglio e non riesco più a muovere le gambe. Tutto è precipitato in fretta. Inizia il calvario delle visite e delle diagnosi. E le diagnosi si dimostrano sempre sbagliate, anche quelle fatte da medici e ospedali stranieri. Vado all’estero, mando il mio sangue per esami negli Stati Uniti. Poi arrivano i dolori accecanti, il cortisone. Una notte, era il 2 giugno, mi ricoverano in un ospedale vicino a casa, a Roma. Lì incontro il medico più importante per me.
La diagnosi che fa non è per niente buona. Mi perdoni, ma non farò il nome di questa malattia rara perché appena l’hanno fatto a me sono andata su internet, ho digitato la patologia e mi sono spaventata. Insomma, il medico suggerisce una terapia importante e pericolosa, qualcosa che poteva funzionare solo in una percentuale di casi. Io decido di non farla e parto per Pantelleria. Ero lucidissima, quell’estate, per via delle dosi di cortisone. Dipingevo, mi sentivo molto illuminata e ogni tanto provavo a preparare al peggio i miei figli (Teresa, avuta dall’ex compagno Massimo Osti, e Nina e Giovanni, dal marito regista Renato De Maria, ndr).
Poi la situazione peggiora, mi riportano a Roma d’urgenza e inizio la terapia. Ogni mattina, per due anni, sono andata in quell’ospedale. E quando non potevo muovermi, dal letto della struttura chiamavo i miei figli via Skype per restare ancorata a loro e alla vita. Piano piano, un passo alla volta, ce l’abbiamo fatta. Ed eccomi di nuovo in pista, appunto. (...) Ho avuto tanta paura di vivere quando avevo vent’anni. E mi sono fatta venire pure gli esaurimenti con la depressione. La recente malattia, però, mi ha fatto capire che non devi avere paura di morire. Perché è la paura di vivere a fregarti. Solo quella. Soltanto quella».
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