Enrico Sisti per “la Repubblica - ed. Roma”
Quando parlava in tv a notte fonda, quarant' anni fa, camera fissa, occhiali da sole sfumati, capelli acquistati chissà dove, si esprimeva come se stesse leggendo su un "gobbo" esoterico. Straparlava.
Ma a modo suo aveva qualcosa di affascinante. Era oltre, il povero Richard Benson, morto ieri a 67 anni nella sua casa romana dopo una lunga malattia che lo aveva spolpato dentro e fuori (" sono rimasto solo, senza un soldo").
Eroe vagamente pacchiano dei palchi rock della città, nato ( si presume) a Woking, stessa cittadina inglese che ha dato i natali a un grande come Paul Weller, da un genitore italiano e uno inglese, Richard era un puro. Aveva una vita svitata ma rimase fedele a se stesso, fedele alla linea sghemba dei suoi amori in vinile contrabbandati per capolavori assoluti e quasi mai lo erano, sempre pronto ad accettare che il mito lo raccontasse per ciò che era e, parallelamente, per ciò che non era.
Nel corto circuito di autenticità e menzogna, accettò persino che circolasse la voce che in realtà si chiamasse Riccardo Benzoni e che il suo migliore amico fosse un buio interiore in perenne stato di allarme (nel settembre del 2000 cadde da Ponte Sisto e non s' è mai saputo perché).
Tormentato dalle sue stesse passioni, a cominciare da quella per la chitarra elettrica "sodomizzata", ad un certo punto mescolò l'attività di giornalista e quella di musicista. Entrambe lo portavano nella direzione del rock più estremo, luogo in cui le copertine dei dischi sembrano tutte uguali.
Ammesso che ve ne sia una, forse la verità è che pur non essendo né un grande musicista né un fine divulgatore, Richard Benson ci sapeva fare. Non capì mai, tuttavia, come e quando rendersi credibile. Suonava disperatamente.
Si presentava in video, nelle tv locali, a cominciare dalla leggendaria Tva 40, come un personaggio della commedia dell'arte, uno da baraccone, che intonava lodi a figure spesso note soltanto a lui, le quali producevano dischi di puro confine, estetico e mentale, di cui il nostro caro angelo dark poteva fare ascoltare soltanto pochi secondi per ovvi motivi di Siae. E fu così che capitò sotto gli occhi di Carlo Verdone. Il quale pensò: " Che tipo, perfetto per un film!". Detto fatto.
Richard Benson divenne il presentatore della trasmissione "Jukebox all'idrogeno" in "Maledetto il giorno che t' ho incontrato" del ' 92. Affiancato dal Verdone " biografo di Rita Pavone" ( così l'avrebbe definito nel film Giancarlo Dettori), Richard non dovette fare altro che interpretare se stesso davanti alla telecamera di un'immaginaria emittente locale milanese, mettere in mostra il suo labbro leporino ed esaltare il culto di Yngwie Malmsteen, virtuoso chitarrista svedese. Niente di più facile.
Ora, a ripensare il suo modo di esibirsi dal vivo e di raccontare la musica, passando per l'apparizione in "Quelli della notte", vien quasi da sorridere. Erano tempi diversi, festival diversi e televisioni diverse davanti alle quali si mettevano ragazzi diversi. Perso nei suoi misteri, ma anche testimone di questi misteri, Richard Benson appartiene all'epoca in cui per conoscere il volto di un musicista amato bisognava aspettare mesi. E non sempre bastava. Il suo mondo, rigorosamente analogico, era fatto di nomi impronunciabili e di parole in libertà. Un futurista " metal" che amava Joe Satriani. E che è morto felice.
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