Silvia Fumarola per “la Repubblica”
Deve essere bello affrontare la vita armati di comicità surreale: Nino Frassica lo sa. «Amo scherzare, il cosiddetto cazzeggio: non prendere le cose troppo sul serio è un antidoto». Ironico, inventore di un lessico tutto suo, di battute veloci («Sono alto un metro e 73 a stomaco vuoto»), a 71 anni è il protagonista dell'anno. Il pubblico lo ha sempre seguito, da Quelli della notte a Indietro tutta, poi il ruolo del maresciallo Cecchini in Don Matteo e Che tempo che fa con Fabio Fazio, in cui si presenta come direttore di Novella bella.
Domani debutta al teatro Ambra Jovinelli di Roma con Alessandro Haber, Rocco Papaleo e Giovanni Veronesi nello spettacolo Maledetti amici miei Il ritorno, ispirato al programma di Rai 2 del 2019.
Anche sul palco è un happening?
«Ci raccontiamo a ruota libera. Mi piace per questo, ogni sera sarà diverso. Vado spesso a casa di Giovanni, sono stato suo ospite in radio. È un creativo, un altro che ama giocare, abbiamo lo stesso modo di vedere le cose. Con Papaleo e Haber siamo affiatati, mi sono buttato. In televisione non si fa più niente di nuovo. Qui potrò improvvisare, come insegna Arbore».
Arbore ha creduto subito in lei?
«Sì. Lasciavo messaggi nella sua segreteria telefonica senza chiedere niente, non volevo sembrare uno stalker. Lo facevo solo ridere. Mi volle conoscere lui».
Come nasce l'umorismo surreale?
«Mi viene naturale, è un modo di vedere la vita. Quello di Don Matteo e quello di Fazio sono due pubblici diversi, questo mi piace. Nella serie faccio la commedia, c'è una storia da rispettare. Da Fabio posso inventare».
La sigla di "Novella bella" è cult, la cantano tutti.
«È una cosa inedita, curiosa, l'ha fatta pure Adriano Celentano» .
Si dice che i comici siano malinconici: lei lo è?
«È un luogo comune. Certo c'è molta differenza tra la scena e la vita, nel privato non si può avere sempre la voglia di divertire. Se uno è sempre alla ricerca della risata, tanto normale non è. Mi allarmano quelli che fanno battute a raffica e non si censurano un po'».
Perché?
«Perché c'è un limite, esiste l'autocritica . Me ne accorgo su di me, quando penso a una battuta ma la risparmio al pubblico: "È troppo facile, non la dico". Mi autocensuro».
Christian De Sica ha detto che il politicamente corretto ha ucciso tutto. Che cosa ne pensa?
«Che ha ragione. Se la correttezza vuol dire mettere un limite, quindi censurare, non va bene. Noi comici dobbiamo essere liberi di dire quello che vogliamo, senza offendere».
Checco Zalone la fa ridere?
«Moltissimo. Lui è libero».
L'attore comico più bravo?
«In assoluto Carlo Verdone; prendi un pezzo qualsiasi di un suo film e dici: "Che bravo". Come attore drammatico, Pierfrancesco Favino».
Da ragazzo cosa voleva fare?
«Sapevo quello che non volevo fare: i lavori pesanti. Da ragazzino coglievo i pomodori, piccole cose. Nascendo in provincia, spesso si diventa rinunciatari: "Figurati se mi chiamano, in Rai ci sono Mina, Walter Chiari, che se ne fanno di me". È cambiato tutto, c'è YouTube, è molto più facile farsi conoscere. Sono sicuro che ci sono talenti, miei coetanei, che non ci hanno mai provato».
Invece lei non si è perso d'animo.
«No, ma le racconto una cosa. Quando ho fatto Quelli della notte vivevo a Galati Marina, in provincia di Messina, i miei vicini erano pescatori. Annunciai: "Vado in televisione". Quando mi hanno visto, il commento fu: "Guarda, c'è il figlio del tuo compare Alberto (mio padre)". E la risposta: "No, non puo essere lui". Per la nostra mentalità era uno che mi somigliava, era impossibile che fossi finito dentro il televisore».
Perché con Arbore non inventate un nuovo show?
«Renzo è abbastanza volubile, quando pensavamo a qualcosa dopo Indietro tutta, l'indomani non rideva come il giorno prima. Mettevamo tutto in discussione, diventando pignolissimi, alla ricerca del vero nuovo. Cambiare totalmente è raro, lui ha cambiato davvero, sempre: pensi ad Alto gradimento e a Quelli della notte ».
Le pesa l'età?
«Cerco di fregarmene. I miei coetanei si deprimono perché non vogliono accettare gli anni che passano. La verità è che si soffre, invecchiare è un'arte. Anche i grandissimi da vecchi hanno sbagliato. Alberto Sordi era un gigante ma gli ultimi film non erano così belli. Bisogna stare attenti alla smania di fare. Il calciatore anziano sa che le gambe non sono più quelle di una volta, l'artista no. Io voglio capire fino a quando posso giocare».
Sogna un ruolo drammatico con un grande regista?
«Vorrei girare un bellissimo film, non sogno necessariamente un ruolo drammatico. Il mio forte posso darlo nel comico».
Rimpianti?
«No. Le cose brutte che ho fatto erano dettate dal bisogno, mi servivano i soldi».
Perché sulla copertina del suo ultimo, stravagante libro, "Paola, una storia vera" (Mondadori), si è vestito da donna?
«Ho cercato la foto di una donna. Con un'applicazione puoi vedere la tua faccia da giovane, la protagonista del romanzo è del 1955. Somiglio a mia madre e a mia sorella e si vede che sono io. Mi è sembrata perfetta».
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I suoi genitori hanno potuto vedere il suo successo?
«Mia madre qualcosa, era fiera. Non stava già bene, capì quando ho fatto il testimonial per Maina. Chiesi di portare al mio paese un camion con una montagna di panettoni. Li distribuì a tutti, era felice. Quando le spiegai: "Mamma, in banca ho dei soldi", non le fece lo stesso effetto. Quei dolci erano una cosa concreta».
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