1 – E L' ATTACCO A SOROS METTE NEI GUAI ZUCKERBERG E LA VICE
Estratto dell’articolo di Federico Rampini per “la Repubblica”
Attacchi antisemiti contro George Soros? Non sapevo nulla». «Anzi sì, sapevo tutto». Nel giro di 48 ore la numero due di Facebook, la direttrice generale Sheryl Sandberg, si contraddice e così facendo rilancia alla grande lo scandalo. Mark Zuckerberg la difende comunque e smentisce che la Sandberg sia avviata alle dimissioni. Ma al tempo stesso il fondatore e chief executive deve smentire le proprie, di dimissioni: la voce è insistente, a conferma che la tempesta continua a investire il colosso dei social media. (…) Sembra lontano il tempo - ed era appena un anno fa - in cui di Zuckerberg si parlava come possibile candidato alla Casa Bianca, e lui stesso era partito in una tournée esplorativa degli Stati Uniti. (LEGGI L’ARTICOLO INTEGRALE SU “REP – LA REPUBBLICA”)
2 – ZUCKERBERG E SOROS, IL RE DEGLI SPECULATORI CONTRO L'IMPERATORE SOCIAL: LA GUERRA CHE FA TREMARE FACEBOOK
GEORGE SOROS E LA OPEN SOCIETY
Sul fronte dei profitti le cose vanno benissimo (40 miliardi di ricavi soltanto nel corso del 2017). Su quello dell'immagine e della reputazione, che quando dirigi il più importante social del mondo è tutto, la situazione peggiora. Costantemente. Dopo lo scandalo di Cambridge Analytica, Mark Zuckerberg non si è più ripreso dall'ombra che lui stesso si è gettato addosso.
E nonostante perfino alcuni dei maggiori investitori di Facebook chiedano la sua testa perché il potere che ha assommato su di sé è pressoché assoluto e risponde solo a se stesso, l'inventore di Fb appena un giorno fa ha ribadito che non si dimetterà. Correndo poi a difendere la sua partner prediletta, l'altra persona coinvolta negli attacchi ad uno dei più grandi speculatori del mondo che ora sta quasi diventando un mecenate umanista: George Soros. L'altra persona sulla graticola assieme a Zuckerberg è Sheryl Sandberg.
IL DECLINO DELL'IMPERO DI FACEBOOK
"La mia partner più importante"
Della Sandberg, Mark Zuckerberg ha solo stima, lo ha ribadito dopo aver sottolineato che non si dimetterà: "Ha guidato il lavoro sulle grandi questioni relative a elezioni, contenuti e sicurezza. E' una partner importante per me da 10 anni e spero che lavoreremo insieme per i decenni a venire".
Nel mentre è il New York Times a svelare i metodi di Facebook contro chi attacca il social network che oggi comprende oltre due miliardi e duecento milioni di persone, il 30% della popolazione mondiale. In estrema sintesi: George Soros, l'uomo che scommise sul crollo della lira nel 1993 guadagnandoci su mentre crollava l'economia del Paese e il governo Amato, e che oggi fa il filantropo senza dimenticarsi le gioie della speculazione finanziaria, da tempo conduce la sua guerra a Facebook.
Ha criticato quello e altri social network come forme di oligopolio economico antidemocratiche e pericolose per la loro opacità. E finanzia la fondazione Open Society che comprende attivisti del gruppo Freedom For Facebook. La controffensiva di Zuckerberg contro Soros non si è fatta attendere.
Il discredito e l'ombra dell'antisemitismo
Dopo lo scandalo di Cambridge Analytica, la società che organizzò la campagna pro Trump, rappresentando anche investimenti di gruppi di interesse russi sulla politica americana, con i dati degli utenti Facebook ceduti e manipolati per questo scopo, Mark Zuckerberg andò di fronte al Congresso degli Stati Uniti facendo lo gnorri.
Non sapeva, non era al corrente, faceva il pentito dicendo che la sua azienda non era stata abbastanza attiva nel controllare azioni di pirati informatici e campagne "sporche" per orientare la pubblica opinione. Ma subito dopo partì con la controffensva, lanciando una campagna di lobbying e diffamazione a tutto campo (attraverso la società Definers Public Affairs) che comprendeva chi stava minacciando l'immagine di Facebook, compreso Soros.
UDIENZA DI ZUCKERBERG AL SENATO
Shery Sandberg ha prima negato, poi ammesso si essere a conoscenza della campagna diffamatoria con contenuti antisemiti orchestrata contro Soros. Il Nyt ha svelato come, per rafforzare l'asse fra il social network ed esponenti del partito democratico americano, a lavorare nell'azienda sia stato assunto il figlio del capogruppo dem al Senato, Chuck Schumer.
La Sandberg, ebrea come Zuckerberg (e Soros), è tornata sul caso dicendo: "Non era nostra intenzione sfruttare una narrazione antisemita contro Soros o chiunque altro". Ma il caso resta in piedi, un gruppo di forti investitori di Facebook chiede la testa di Zuckerberg e il titolo sperimenta una serie di importanti cali di quotazione in Borsa.
Mentre proprio dal fronte democratico, il senatore Mark Warner ribadisce: "E' in atto una sfida a tutto il modello di business di Facebook". Una guerra che sta costando a tutti e che ha già sporcato l'immagine di Zuckeberg, che finora aveva prosperato presentandosi come riservato e neutrale.
3 – FACEBOOK HA TROVATO UN CAPRO ESPIATORIO PER I SUOI DISASTRI, MA IL TRUCCO SI VEDE
Eugenio Cau per “il Foglio”
Non c’è momento migliore della sera subito prima del giorno del Ringraziamento negli Stati Uniti per pubblicare un’ammissione di colpa. E’ quello che ha fatto Facebook mercoledì sera tardi, quando ha pubblicato un comunicato di Elliot Schrage, il capo (uscente) della comunicazione e della policy dell’azienda, braccio destro di Sheryl Sandberg.
Nel comunicato, Facebook conferma punto per punto l’inchiesta durissima del New York Times che accusava il social network di avere usato strategie di comunicazione scorrette e perfino fake news per “intorbidire le acque” e per attaccare surrettiziamente la concorrenza. Sì, abbiamo assoldato Definers, la compagnia di pr che ha diffuso notizie tendenziose sul finanziere e filantropo ebreo George Soros e sulle aziende concorrenti su siti di estrema destra, ha scritto Schrage; sì, abbiamo chiesto esplicitamente a Definers di lavorare su Soros; sì, abbiamo chiesto a Definers di mandare ai giornalisti materiale per danneggiare la concorrenza. L’unica accusa che Schrage ha negato è stata quella di aver contribuito a diffondere fake news – anche se l’inchiesta del New York Times sembra suggerire il contrario.
JEFF BEZOS LARRY PAGE SHERYL SANDBERG MIKE PENCE DONALD TRUMP PETER THIEL
Soprattutto Schrage, che ha già un piede fuori da Facebook e sarà sostituito dall’ex vicepremier britannico Nick Clegg, ha ammesso che la colpa è sua: la responsabilità di aver assunto Definers e diretto l’attività di pr su pratiche malsane – per usare un eufemismo – sarebbe tutta sua.
Segue il comunicato di Schrage un “commento” di Sheryl Sandberg, che dice che forse sì, lei aveva qualche responsabilità di supervisione, e forse qualche documento su Definers potrà anche essere passato sulla sua scrivania, ma che in fondo lei non sapeva delle pratiche scorrette dell’azienda che guida assieme a Mark Zuckerberg.
Chiude il commento una condanna dell’antisemitismo – quello che si scatena tutte le volte che si accusa Soros di essere a capo di un grande complotto, come Definers ha fatto per conto di Facebook. Delle due l’una: o Schrage è stato scelto come capro espiatorio, oppure Sandberg e Zuckerberg hanno un grave problema di leadership, e non sapevano che mentre la loro azienda prometteva di combattere le fake news in realtà contribuiva a diffonderle. Grave in entrambi i casi.
Tanto più perché ieri un’ulteriore inchiesta del New York Times ha chiarito ancora di più il ruolo di Definers non soltanto in relazione a Facebook. Definers è una delle tante agenzie di “opposition research” di Washington, ma è stata una delle poche a decidere di portare i propri talenti sulla costa ovest, in un momento in cui la Silicon Valley era nel pieno di una crisi di reputazione.
Sono state molte le aziende tech che hanno assoldato Definers per lanciare campagne di comunicazione senza scrupoli. Quando il produttore di chip Qualcomm si è trovato in dissidio con Apple, per esempio, ha chiesto a Definers di produrre una finta campagna per sostenere una fantomatica candidatura di Tim Cook alla presidenza degli Stati Uniti nel 2020. L’obiettivo era minare il buon rapporto che Cook aveva stabilito con Donald Trump.
Tattiche simili sono piuttosto comuni nel mondo della politica di Washington, e certo lo sono anche in certi ambienti di business. Non sono illegali, non hanno mai destato troppo scandalo. Ma la Silicon Valley ha sempre sostenuto davanti al mondo di non essere un business qualunque.
Ha sempre preteso di trovarsi su un piano morale più elevato, di avere una missione più nobile del semplice far cassa (per Facebook è “connettere il mondo”) e per questo ha sempre preteso trattamenti preferenziali da parte della politica e dei regolatori. La delusione, il techlash, è scoprire che le grandi aziende tech sono come tutte le altre, e scoprirlo dopo aver dato loro fiducia, vantaggi e una montagna di dati.