Matteo Marchesini per “il Foglio”
Per il quarantesimo compleanno di "Taxi driver", chi ha le carte in regola dirà senz' altro quel che c' è da dire. Si onorerà Herrmann, morto prima di poter verificare al cinema l' efficacia del suo melanconico sax e dei suoi crescendo ansiogeni, stridenti, che saturano la mente del protagonista ma restano indistinguibili dall' allarme oggettivo che pervade New York. Si ricorderà Schrader, che proiettò sulla sceneggiatura il suo periodo di autodistruzione.
Si citeranno i luoghi letterari con cui la critica caricò subito il film, gli esistenzialismi e i sottosuoli dostoevskiani tradotti nell' America calvinista di un ex marine insonne e solo, probabilmente reduce dal Vietnam, che oltre il vetro del taxi vede scorrere con lo stesso ronzio ovattato e gli stessi brulichii scomposti le campagne presidenziali e la violenza atomizzata dei marciapiedi, sognando il sogno puritano e purificatore del diluvio. Si riepilogherà il percorso di Scorsese a partire dai suoi giovanili rossi acidi, sulfurei, magari indugiando sull' oscillazione tra pathos eroicizzante e straniamento, tra brutalità e aristocratica elegia.
E forse ci si soffermerà sul suo modo di trattare i cliché, mai usati di primo grado ma neanche ironizzati, piuttosto "sospesi" da uno sguardo che se ne fa ipnotizzare e li ipnotizza: nel caso quello di De Niro, davanti a cui i dettagli si fanno di colpo allucinati per poi tornare subito sfondi ottusi, insignificanti e inutili come quei dollari stracciati che il regista segue voluttuosamente nel loro lento planare tra i sedili.
Questo e altro, non dubito, sarà puntualmente detto. Io, però, alle osservazioni imprescindibili vorrei aggiungere un tema laterale e "trasversale", che coincide poi col motivo per cui la comicità atroce di "Taxi driver" non finisce di commuovermi. Sì, è vero: Travis è alla disperata ricerca di un' identità, di uno scopo, e abita il vuoto coatto in cui esplodono le coatte risoluzioni camusiane o sartriane.
SCORSESE E DE NIRO SUL SET DI TAXI DRIVER
Ma la mancanza di scopi è qui carenza di significati anche in senso strettamente linguistico, espressivo: una carenza che, a differenza degli esistenzialisti, lui sconta da pura cavia, senza saperla analizzare. Prima di ogni altra cosa, Travis è un personaggio che non ha le parole per dirsi e per approcciare il mondo. Gli sfugge il contesto che a seconda delle situazioni definisce e gradua i piani del non detto e del dicibile.
Si pensi, nella scena del caffè con Betsy, al suo raggelante gioco di parole tra "organizzarsi" e "orgasmizzarsi": che non è solo inopportuno, ma è pronunciato senza nessun piacere più o meno sconcio, anzi con la goffa rigidità di chi vorrebbe accedere a un presunto galateo. E non è un caso che il calembour riguardi la sfera erotica, in Travis inibita dall' alienazione (quando dice alle donne che vuole essere loro amico va preso alla lettera).
Più avanti, dopo aver portato Betsy nel cinema porno dove va per far passare il tempo, alle proteste di lei ripete disarmato: "io non m' intendo di film", come poco prima ha detto "non mi intendo di musica". La sordità a sfumature e sottintesi non gli impedisce solo di flirtare con una ragazza, ma di flirtare con la realtà tout court, che lo rigetta sempre dietro il finestrino. Fin dall' inizio, quando dichiara la sua coscienza cristallina e l' istruzione alla buona, Travis alterna al sorriso straziatamente stolido una stordita serietà, appena increspata dagli scatti nervosi da cui non lo libera nemmeno la strage.
DIPINTO DI ROBERT DE NIRO NEL RUOLO DI TRAVIS BICKLE IN TAXI DRIVER
E' scisso tra una resa docile e una rabbia senza espressione; e dietro il contegno composto che gli impedisce di cadere a pezzi sembra non nascondere niente - nessuna profondità, nessun punto di fuga. Il suo dolore resta informe e inarticolato, al di qua di ogni simbolizzazione: perciò il cinema, nella sua piattezza irreale, è il mezzo più congruo per rappresentarlo.
Travis può illudersi di controllare la realtà solo facendo di ogni suo segno una questione immediatamente personale e drasticamente etica, rispondendole con sentenze arbitrarie quanto perentorie. Così, in una delle soggettive dall' alto, mentre la sua mano magra sorvola la scrivania di Betsy come a spazzare via tutto, per un chiaro impulso proiettivo scandisce che quella roba "non significa niente".
E così, quando il rifiuto di lei gli impedisce di considerarla un angelo perso nel sozzume metropolitano, le grida che "vive in un inferno" e che "è come tutti gli altri". Betsy, Iris e Palanti ne catalizzano il suo bisogno di idealizzare gli esseri umani e la conseguente frustrazione, che Travis prova infine a scrollarsi di dosso con un tentativo estremo di sublimare e sublimarsi: non trovando posto nel mondo, decide di cancellarlo insieme alla propria vita, e di diventare il vendicatore "segreto" già prefigurato nella patetica cartolina ai genitori.
In ognuno di questi passaggi, l' ex marine appare alla mercé della strada. Per darsi una forma, deve aggrapparsi al Caso di cui il taxi è l' emblema. Sono le corse a suggerirgli le persone da idolatrare o condannare, le armi da acquistare. "Casuali" sembrano gli abiti da festa e da giustiziere che sformano il suo corpo atletico; e più casuale è la lingua che mastica.
Come un bambino che nessun amore ha educato a misurare il senso delle espressioni, Travis prende in parola tutto ciò che sente, e attribuisce un valore letteralmente assoluto ai luoghi comuni, agli oggetti più dozzinali. L' impossibilità di esprimersi, di sottrarsi a questa ebetudine, trova la sua esemplificazione più grottesca nel dialogo col decano dei taxisti, il Mago. Travis vorrebbe comunicargli il suo disagio, ma non sa neppure circoscrivere l' argomento: smozzica le frasi, annaspa con gli occhi.
Il Mago prova a calmarlo con una vaga filosofia della vita (vaga ed esistenzialistica, a suo modo), e lui allora affoga riso e rabbia in una tipica smorfia deniriana, biascica che non ha mai sentito una cazzata così grossa. "Ehi, io non so neanche di che cazzo mi stavi parlando", ribatte il collega; ma poi, con un bonario colpetto sulla spalla, gli assicura che tutto si sistemerà: "Io lo so", borbotta congedandosi.
Il Mago è il volto umano del chiacchiericcio che tracima dalle strade, degli hollow men che parlano di tutto solo per sentito dire. Di quel ronzio insignificante, la carenza di significati e affetti che affligge il taxista è la verità rimossa: nel suo corpo, puro fascio di energie implose, Travis soffre e riflette con l' incoscienza crudele di una bestia un mondo anaerobicamente sospeso su un' assenza totale di empatia.
Ma forse, se il suo dolore senza forma mi commuove tanto è perché mi ricorda altre ferite inespresse: come le agonie lente dei miei nonni, murati in se stessi e costretti a vegliare davanti al colorato schermo di una tivù di cui non capivano il gergo, frastornati da refrain che per loro non significavano niente, privi com' erano di un legame qualunque con la storia rurale in cui avevano vissuto, sofferto e riso. In quelle stanze dozzinali dove la malattia invertiva i ruoli delle generazioni, devo avere biascicato anch' io parole da Mago: ma per accorgermi subito che non avrei mai saputo davvero di che cosa mi stavano parlando le loro smorfie indifese, gli ultimi trasalimenti delle loro occhiate.