GIANLUIGI NUZZI - I PREDATORI TRA NOI
Paolo Di Paolo per “la Stampa”
A leggere in sequenza le vicende ricostruite e raccolte da Gianluigi Nuzzi nelle pagine di I predatori (tra noi), pubblicato da Rizzoli, mi è tornato in mente un dialogo fra Pasolini e Calvino. Durissimo. È l'autunno del 1975, Pasolini morirà di lì a un mese, massacrato. I due scrittori si confrontano sul delitto del Circeo.
Calvino parla di «esercizi mostruosi» che avvengono nel clima di una «permissività assoluta». Parla di giovani vocati alla sopraffazione, al disprezzo del senso civico, «figli dell'inflazione di immagini» a cui il sesso interessa solo come crudeltà nazista. Pasolini reagisce stizzito, incalza il collega, ripete dieci volte la stessa domanda: perché dici questo?
Non accetta l'idea che la "cancrena" si diffonda da alcuni strati della borghesia per poi contagiare il popolo: «C'è una fonte di corruzione ben più lontana e totale. Ed eccomi alla ripetizione della litania. È cambiato il "modo di produzione" (enorme quantità, beni superflui, funzione edonistica). Ma la produzione non produce solo merce, produce insieme rapporti sociali, umanità. Il "nuovo modo di produzione" ha creato quindi una nuova umanità, ossia una "nuova cultura" modificando antropologicamente l'uomo (nella fattispecie l'italiano)».
Nuzzi, nelle prime pagine del suo libro, parla apertamente di malattia, di «deriva barbarica», di «cannibalismo sociale». Ma teorica è solo la premessa, perché per il resto lascia parlare nel dettaglio le storie dei suoi personaggi - romanzeschi, da romanzo nero, ma ahimè verissimi.
Come quell'Alberto Genovese, imprenditore rampante, abituato a scattare ogni giorno qualcosa come trecento foto. Niente di strano, se non fosse che a essere ritratte sono decine di ragazze ammanettate e sodomizzate. Strafatto di cocaina e MDMA, violento, il proprietario del locale milanese Terrazza Sentimento, ha costruito un arsenale sadomaso astratto e concreto: da nerd bullizzato a imprenditore a predatore sociopatico.
alberto genovese in comunita' 11
Nuzzi ci mette di fronte alle confessioni di Genovese sul suo passato segnato dalla violenza subita anche in famiglia e ce lo mostra sguazzante nelle sue avventure finanziarie di rapace intelligente. «Per capire - scrive Nuzzi - bisogna ripartire dall'estate del 2015, quando quella prima striscia di cocaina fa emergere la destrutturazione finora sotterranea di Genovese, trasformando la sua storia in un faro per illuminare gli ambienti più bui della nostra società».
Come sempre nelle inchieste di Nuzzi, si resta magnetizzati dalla ricostruzione: tassello per tassello, fonte per fonte - e devo aggiungere, in questo caso, che essere messi di fronte a un certo modo di esprimersi è illuminante. Non c'è il tipico, prevedibile impasto di volgarità e rozzezza che le intercettazioni rivelano: Genovese e i suoi soci parlano di mettere su «un'agenzia per la ricerca e selezione di figa con il cervello», che è un esempio di volgarità più subdola, più sofisticata.
Un modo malato di vedere il mondo e il rapporto con gli altri, travestito da cultura imprenditoriale e tradotto in quell'insopportabile, invadente, orrendo lessico milanese-aziendalese. Infarcito di «chiavare» e «violentare» come passepartout. Paradossale che il nome dello scintillante locale cocktail bar fosse Terrazza Sentimento: quando i sentimenti, qui, sembrano subordinati al «cazzo nel culo» (cit.), ai lividi, alle inesauribili carte di credito, dentro un «universo tutto permeato dalla droga».
alberto genovese in comunita' 14
La storia del "bracconiere" Antonio Di Fazio, manager arrestato per stupro, occupa meno pagine rispetto a quelle dedicate a Genovese, ma funziona da ulteriore elemento di messa a fuoco di questo mondo di trasformisti mitomani che sono i lupi di una non-favola. Sono gli stupefacenti ad anestetizzare i sentimenti sulle terrazze chic e meno chic? O c'entra anche una perniciosa, infiltrante diseducazione sentimental-sessuale del maschio di mezza età, misogino più o meno consapevole, che diventa esplosiva a furia di ketamina?
Si esce dalla lettura sconcertati; in ogni caso, senza risposte univoche riguardo all'orizzonte morale su cui le vicende si proiettano. «Cosa dedurre da tutto questo?», domandava Pasolini a Calvino. Che leggeva diversamente le ragioni della violenza. Però trovava le parole giuste per definirla: «sguaiataggine truculenta», «sicurezza di farla franca», «disprezzo per la donna», «crepe paurose» e «tendenze oscure». E invitava a non sottovalutarla: per come mina il nostro tessuto sociale, «fragile da sempre».