Marco Giusti per Dagospia
Pure io, come Aldo Grasso, ho visto anche l’ultima puntata di The Young Pope. E non me ne sono persa una. Devo dire che aspettavo solo la puntuale stroncatura di Grasso, le sue sottolineature con la matita blu sul “compiacimento fastidioso ed esagerato”, ma anche le sue notazioni sullo “stile raffinato e incontestabile”, per capovolgere la situazione. O magari solo per divertirmi un po’. Mi sono letto anche decine e decine di tweet di fan non solo italiani del tutto rapiti da The Young Pope e dal suo Lenny Belardo.
E ho ascoltato decine di giovani e vecchi registi più o meno esaltati da Sorrentino. Ho sentito anche i molti haters della serie. Quelli che appena vedono la sigla con il papa di Cattelan (quello bono, quello artista, non quello di Sky) urlano e cambiano canale. L’ho fatto in religioso silenzio, credo. Senza divertirmi. Perché, malgrado la domanda che in molti si fanno sulla tragica fine del canguro, so benissimo che non sto vedendo né una parodia alla Franco e Ciccio di Habemus Papam né una soap (come ha detto il Cattelan di Sky).
Ho sentito tesi molto interessanti, “lo detesto dai tempi de Il divo, ma, sai, ho studiato al seminario…”, “Sorrentino si diverte, si spinge esattamente dove un altro si sarebbe fermato, tu pensi che non possa arrivare fino a lì e lui lo fa…”, “è cafone… è vomerese”. Dopo le prime due puntate viste al Festival di Venezia, dove sembrava (ma lo è, temo) l’unico film davvero internazionale prodotto dalla nostra industria cinematografica, pensavo, vedendo le successive puntate, che Sorrentino avesse diluito un bel po’ la sua carica, anche di messa in scena, anche di ambizione, nel seriale. Ma non è proprio così.
paolo sorrentino e jude law 078
Anche se seguitavano puntuali le osservazioni più banali. “Come gira!”, “Però è girato benissimo!”. E poi quelle sugli ascolti. “E’ crollato!”, “Perché non lo dicono?”. Non è facile chiudersi a guardare con attenzione una serie così divisiva, cito ancora Grasso, cercando di staccarsi un po’ dal chiacchiericcio continuo che si porta dietro comunque Sorrentino. In tv, poi.
Ma ci vorrebbe il machete (o macheto lo chiamava in pugliese Fernando Di Leo) per tagliare dalla nostra visione, più o meno critica, tutto il chiacchiericcio, il twitterume, ma anche il continuo citare e citarsi addosso dello stesso regista che affolla il nostro (suo) schermo. E tutta la sua playlist da Spotify acchiappagonzi…
SORRENTINO LAUREA HONORIS CAUSA 4
Intanto, un film non è diretto bene se non è scritto bene. Soprattutto una serie tv. E The Young Pope non è scritto bene. O, almeno, non è scritto bene come Westworld di Jonathan Nolan, che è un film di pura scrittura televisiva seriale, dove ogni puntata si cambia regista e il tutto funziona lo stesso. Ma che sia diretto più o meno “bene” importa poco. Come importa poco che non sia scritto “bene”. Dialoghi chilometrici che chiudono tutti con una frase a effetto che avrà fatto felice Goffredo Fofi (ecco, questo è un guilty pleasure…).
Non è neanche strutturato “bene”. O almeno strutturato bene come i professorini o professoroni alla Grasso pensano che sia il seriale tv (poi però esalta Solo per la scrittura…). Non riesce neanche a sviluppare come le grandi serie che amiamo i caratteri dei suoi meravigliosi attori, da James Cromwell a Diane Keaton da Silvio Orlando a Javier Camara allo stesso Jude Law.
E, alla fine, non ce ne importa nulla. Perché The Young Pope ha molte altre virtù. Che ci piacciono. Anche se urliamo quando vediamo l’uso che fa del poro papa di Cattelan nella sigla. Sorrentino riprende il possesso totale del suo ruolo di regista. Si esalta dei suoi dialoghi, avendo relegato Contarello nello sgabuzzino triste di “collaborazione ai dialoghi” dei titoli di coda, si esalta dei movimenti di macchina di Luca Bigazzi.
Firma tutto dall’inizio alla fine, riportando il regista ai fasti di un Fellini o di un Visconti o di un Bertolucci. Complici Wildside e Sky che producono. Per questo i registi italiani, dal più sfigato in su, lo adorano. Vedono in lui questa totale, assurda libertà che fa urlare i critici e che loro non possiedono più dallo scorso secolo.
Pio XIII, il papa Pio Tutto, non è autobiografico per la storia personale di Sorrentino, lo è perché è un regista esaltato e padrone di fare “come cazzo gli pare” come Sorrentino. Alla faccia dei produttori, forte dei premi a Cannes e dell’Oscar. Le sue debolezze sono le sue virtù. Ti fa orrore? Meglio. La sua rivoluzione è la rivoluzione contro la narratività da fiction o da filmetto autoriale.
Vuole citare Brodky e Nada? Lo fa. Non sente il produttore che gli taglia la citazione al montaggio. Vuole citare il Pipita anche se è finito alla Juve? Lo fa. Fa tutto quello che gli sceneggiatori italiani migliori, abituati a lavorare tra produttori e registi, non si possono permettere più. E’ cafone? Certo che lo è. E il Cattelan artista diventa normale come il Cattelan conduttore di Sky.
Ma per fortuna che lo fa. Perché ci permette di respirare un attimo un cinema che non esiste più e che pure abbiamo avuto. Nel secolo scorso non solo Fellini e Visconti e Pasolini erano liberi di fare quello che gli pareva, anche i Di Leo o i minorissimi come Bergonzelli o Polselli o Cicero si credevano padroni della propria libertà creativa.
Ecco, Sorrentino, con The Young Pope ci riporta quel tipo di libertà. Ma non solo. Grazie a questa libertà si costruisce un immaginario rock, diciamo alla Celentano di Joan Lui? Un immaginario rock legato al papa, alla chiesa. E’ rock Jude Law vestito da papa con gli occhiali neri o che fuma in continuazione? Lo è. Tié ti metto un pezzo che poi risentirai sulla playlist di Spotify se clicchi The Young Pope.
Era così anche Boardwalk Empire o il capolavoro dei capolavori Vinyl. Sorrentino libera il canguro che è in noi. Diciamo. Che poi abbia tanto da dire e raccontarci è un’altra cosa. Ma non stiamo guardando da anni serie come Walking Dead o Games of Throne che ruotano attorno a due idee? E House of Cards?
Il cinema, una volta, era fatto dal primo piano di Clint Eastwood col sole a picco col cappello e il sigaro in bocca. Ma il sole a picco lo aveva voluto assolutamente Sergio Leone e lo aveva imposto a Massimo Dallamano (e solo lui lo sapeva fare così bene) e il sigaro pure, perché a Clint faceva schifo. Bastava quell’immagine a rivoluzionare un genere? Certo, con la musica di Morricone e le battute di Fernando Di Leo riprese da Kurosawa doppiate dalla voce meravigliosa di Enrico Maria Salerno.
In qualche modo anche la nuova fiction italiana, anzi il suo immaginario, riparte da una sigaretta o da una canna in bocca al protagonista. Sia questo il Papa di Jude Law o il commissario Rocco Schiavone di Marco Giallini. E, curiosamente, dietro a tutto questo possiamo trovare o Sorrentino o Michele Soavi, che una ventina d’anni fa Quentin Tarantino bollò come il più importante regista italiano (grazie a Deliria).
Ma sempre attorno al sigaro di Clint giriamo. E al suo immaginario. Ho visto tutte le puntate di The Young Pope cercando di trattenermi dal giudicare tutto quello che vedevo con una chiave di banalità critica. Neanche a me piacciono i dialoghi, o questo puntare tutto sui genitori yippie. Molte, troppe cose sono ridicole. E anche l’uso della musica, spesso, è pretestuosa.
Alla fine le puntate più belle sembrano quelle dove non è protagonista Jude Law, ma Silvio Orlando, mai così bravo e divertente, un eroe (e purtroppo, o per fortuna, Sorrentino distrugge del tutto la sua immagine morettiana), o Javier Camara, l’unico che veda davvero uno sviluppo nel potersi costruire come personaggio.
Eppure, quella che vince, è sempre l’immagine del papa giovane che fuma e fa l’occhiolino. L’immaginario che Sorrentino riesce a crearti rendendo rock i preti. Esattamente come aveva reso rock i democristiani de Il divo, finora il suo film migliore. Certo, per arrivare a questo, ho dovuto togliere dalla mia visione le diecimila possibile riserve da piccolo critico nouvelle-vaguista. Le buone letture.
Come puoi citarmi Brodsky e Botero? Aiuto!!! Non c’è più, da tempo, un cinema italiano. Ma anche perché non c’è più ambizione e libertà. Sorrentino, al di là del suo valore, lo dirà il pubblico e il tempo se veramente vale tutto questo, ci riporta intatte ambizioni e libertà di un cinema schiavo delle piccolezze e dei meccanismi da ragionieri che non osa più alzare la testa nemmeno per fumarsi una sigaretta o per vedere una partita del Napoli. Diceva Fellini che negli anni ’60 da casa sua, dietro Piazza Navona, sentiva i ruggiti dei leoni dello zoo che avevano fame…