Marco Giusti per Dagospia
Oh, la delicatezza dei film francesi… Diciamo subito che tra i due film francesi in concorso, Marguerite è più riuscito, ma anche questo L’Hermine, cioè L’ermellino, scritto e diretto dal Christian Vincent di La cuoca del Presidente, è un po’ noiosetto ma si difende. Può vantare un’interpretazione di Fabrice Luchini e della nordica Sidse Babett Knudsen da paura, e una sceneggiatura di grande livello. L’idea è quella di costruire una storia d’amore durante lo svolgimento di un processo pesantissimo, visto che l’imputato, un giovane disoccupato, è accusato di aver ucciso la figlioletta.
Riuscire a mettere in piedi una commedia con una base come questa non è impresa facile. Ma il nostro interesse non è tanto nel caso, che pure si svolge fino alla fine del dibattimento, quanto nel personaggio del Presidente, che si chiama non a caso Racine, cioè Fabrice Luchini, che mette in scena teatralmente il processo, e scopre che una delle giurate, Ditte, cioè la davvero notevole e luminosa Sidse Babett Knudsen, già vista in Bogen, è una donna che lui ha molto amato.
Così, mentre seguiamo il terribile processo non sapendo se l’imputato è il vero colpevole o cerca solo di coprire la depressione della sua compagna, seguiamo anche la commedia che si svolge tra il Presidente e la giurata. Un po’ televisivo, sembra che sia il pilot di una serie pensata da France 2, il film è totalmente dominato da Fabrice Luchini e dal bellissimo volto della Knudsen.
Certo, diciamo che non è proprio una scelta innovativa all’interno del concorso. Meritava invece il concorso maggiore, e non Orizzonti, e avrebbe fatto molto scalpore The Childhood of a Leader, opera prima di un attore di 27 anni, Brady Corbet, che lo ha scritto assieme a Mona Fastvold.
Non solo è l’unico film presente a Venezia girato in 35 mm (ahi!), e può vantare una colonna sonora strepitosa di Scott Walker che è di per sé un evento, visto che adatta alla storia una sorta di partitura alla Alban Berg di grandissima potenza, ma è anche l’unico film che possa vantare la ricerca di un nuovo linguaggio di messa in scena e cerchi, anche se con non poche contraddizioni e un’ambizione smisurata, di una sua strada tra Lars Von Trier e Michaek Hanecke.
Tratto, in parte, da un racconto di Jean-Paul Sartre, che alla fine del film viene citato insieme a Musil, Arendt come fonte di riferimento, ci racconta la fanciullezza di un piccolo mostro alla fine della Grande Guerra, qualcosa che ci porterà al nazismo in un’Europa schiava del capitalismo e impaurita dal marxismo.
Il piccolo Prescott, o Prescott il bastardo, Tom Sweet, un bambino biondo scelto per la somiglianza del figlio di Ryan O’Neal in Barry Lyndon, è il figlio di un alto uomo di stato americano, il Liam Cunningham di Games of Thrones, e di una fredda francese che parla ben quattro lingue, Berénice Bejo, che ha probabilmete una storia con il bel Robert Pattinson e detesta il marito.
La famigliola vive in un castello in Francia dove il padre sta costruendo gli accordi tra i potenti dei paesi coinvolti nella guerra che porteranno al Trattato di Versailles. E’ in questo contesto che il piccolo Prescott coverà il suo odio verso la famiglia e verso ogni sorta di controllo e di potere coinvolgendo la cameriera, Yolande Moreau, e l’istitutrice, Stacy Martin.
Inutilmente la madre cercherà di riportarlo alla ragione e il padre proverà a farne un figlio disciplinato. Come spiegano bene la musica di Scott Walker e una fotografia scurissima di Lol Crawley, Prescott seguirà una percorso che lo porterà a qualcosa che ancora non conosciamo, ma che ha già dentro di sé tutti i germi degli anni che seguiranno. Complesso, spesso oscuro e non sempre tenuto, è comunque un’opera prima di grande potenza che coinvolge un cast ricchissimo e talenti diversi. Grandi applausi in sala.