Matteo Persivale per il “Corriere della Sera”
A cavallo, nel West, lontano dalle leggi dell'America, legati solo alle regole della fratellanza tra fuorilegge, niente lavoro, niente casa, niente telefono, niente frigorifero, niente lavatrice ultimo modello, niente cucina componibile, niente tasse da pagare. Nessuna traccia dell'American Dream del benessere. Solo la strada.
Sonny Barger così è vissuto e così è morto, l'altro giorno, a 83 anni vissuti in sella a una Harley e non a un cavallo come i vecchi cowboy ma con la stessa aria da pistolero: addio al più famoso degli Hells Angels, il più truce e il più bravo di tutti a costruire la propria leggenda, fondatore non degli Hells Angels - esistevano già - ma del club di Oakland, California, degli «angeli dell'inferno».
È morto, contro ogni aspettativa, anziano. Ucciso non da una gang rivale ma da un avversario ancora più spietato, il tumore che quarant'anni fa gli portò via le corde vocali ma che dopo quell'intervento rimase buono buono - forse aveva paura anche lui di Sonny - fino a un paio d'anni fa.
Parlava con una speciale macchinetta, conscio di essere così ancora più minaccioso, la pelle bruciata dal sole e i tatuaggi fatti in prigione ormai stinti, gli occhi di bragia, i capelli radi bianchi e cortissimi al posto della vecchia chioma di una volta, la fama fuori tempo massimo tra i ragazzi di oggi grazie alla comparsata nei panni di Lenny il Pappone nel serial di culto «Sons of Anarchy».
Barger era l'uomo che spaventò i grandi scrittori che l'avevano avvicinato - Hunter Thompson e Tom Wolfe - e che scrisse libri sulla sua vita, e romanzi sugli «angeli», perfino uno strano manuale di guida sicura (proprio lui), storie poco in linea con la sua fedina penale pessima e abbondante.
Gli Hells Angels di allora erano l'altra faccia della Summer of Love di San Francisco, nemici degli hippie e delle Pantere Nere, favorevoli (da lontano, generalmente) alla guerra in Vietnam, disposti anche a collaborare strategicamente (magari in cambio di un po' benevolenza sui loro traffici di eroina e anfetamine) con sceriffi locali contro i vari «capelloni» che odiavano più di ogni altra cosa.
Anche per questo Barger - reperto di un sogno americano parallelo che non esiste più - parlava volentieri un po' di tutto, della filosofia dell'1% (l'1% di biker criminali), delle tante donne, delle risse, dei processi, della volta che fumò una sigaretta sulla barella che lo portava nella sala operatoria dove gli avrebbero aperto la gola.
Tutto, tranne la notte di Altamont, 6 dicembre 1969, che era cominciata come la notte più bella della sua vita, i suoi Hells Angels a fare il servizio d'ordine (in cambio di birra, per un totale di 500 dollari) del concerto gratuito dei Rolling Stones che grazie allo scioglimento dei Beatles erano in quel momento la band più importante del mondo.
Le immagini che vediamo oggi, sugli schermi Led o sui nostri telefoni, vengono da «Gimme Shelter», il documentario dei fratelli Maysles, e mostrano Meredith Hunter, 18 anni, afroamericano, al centro di una rissa a pochi metri dal palco. Ha una pistola. Mentre Jagger, circondato sul palco da ceffi terrificanti con il giubbetto di pelle, più prigioniero che protetto, canta «Under My Thumb».
Uno degli «angeli» di Barger accoltella Hunter più volte, poi lo finisce a calci. «Io ero relativamente non fatto, non avevo preso droghe pesanti», scriverà lui anni dopo, dando prevedibilmente tutta la colpa al morto. «In seguito, non mi sono sentito troppo triste per quello che era successo al concerto. Un giorno come un altro nella vita di un Hells Angel».
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