Giusi Fasano per il "Corriere della sera"
Domenica 27 settembre. C'è un ragazzino di 14 anni davanti allo schermo del suo telefonino. Apre il profilo Instagram e nota che in molte delle stories dei suoi amici c'è un messaggio di protesta verso una certa pagina web.
Alcuni dei ragazzi che conosce, in sostanza, nelle stories (immagini visibili soltanto per 24 ore) invitano tutti gli altri a segnalare a Instagram la scorrettezza di quella certa pagina e a chiedere che venga chiusa.
Il motivo è questo: il gestore dello spazio sotto accusa sottrae e rende pubbliche immagini sessualmente esplicite che ragazze giovanissime (in molti casi palesemente minorenni) hanno postato, appunto, nelle stories con la modalità di visualizzazione «amici più stretti».
Evidentemente qualcuno degli «amici più stretti» ha riprodotto e diffuso le foto fuori dalla cerchia alla quale la ragazzina di turno voleva farle arrivare. Ovviamente a sua insaputa. E alla fine le foto sono finite sulla pagina sbagliata che le ha pubblicate a disposizione dell'universo mondo.
Il nostro ragazzino quattordicenne si incuriosisce, si collega al profilo accusato e comincia a indagare. Nel senso vero e proprio del termine. Cioè: mette a fuoco il problema, intuisce la potenzialità dei danni, segue fili logici e cerca di raccogliere prove. Un investigatore nato.
Dopodiché decide che contestare il profilo ladro di immagini non servirà a fermarlo se il suo scopo è metterle online per avere like e follower. Anche perché, sommerso dalle proteste, il tizio (chiunque sia) deride pubblicamente chi lo contesta e apre una pagina di riserva, mossa che di solito dirotta il materiale su un altro profilo proprio immaginando che il principale possa essere chiuso o bloccato.
No. Protestare via Instagram e basta non sarebbe servito a nulla. Così Elia - ma non è il suo nome - sceglie di raccontare tutto a sua madre che di professione fa l'avvocata. Risultato: questa faccenda è diventata un esposto-denuncia carico di indizi, ricostruzioni, screenshot, dvd pieni di materiale; il tutto approdato prima dai carabinieri e poi in Procura.
I reati ipotizzati (cessione e detenzione di immagini pedopornografiche e istigazione a pratiche di pedopornografia) sono di competenza della Direzione distrettuale antimafia, in questo caso di Venezia.
Quindi saranno loro a risalire a indirizzi web e identità personali di chi gestiva il primo profilo (chiuso da Instagram dopo le proteste) e quelli successivi (almeno tre), aperti uno dopo l'altro spesso con le stesse fotografie.
Nella sua inchiesta indipendente, chiamiamola così, Elia ha documentato anche la potenzialità di acquisizione e divulgazione: in tre minuti, per dire, i gestori di una delle pagine sotto accusa hanno «catturato» dalle stories di Instagram 83 fotografie.
In un altro indirizzo web sono state postate delle dirette video: ragazzi dalle voci giovanissime annunciavano il lancio di un progetto per unire Instagram a Telegram in un servizio a pagamento.
Altri autori facevano riferimenti ad avvenuti incontri per pratiche pedopornografiche o chiedevano ai loro contatti di rilanciare le fotografie rubate per avere il massimo di visualizzazioni e follower. In cambio la promessa era mandare «i nomi delle tipe».
Le ragazze di cui stiamo parlando sono spesso visibilmente minorenni, gli scatti le ritraggono in posa, seminude, o in biancheria intima. Migliaia le visualizzazioni in pochi minuti, trentamila o più in una serata.
E qualcuna scrive al gestore della pagina per dirgli: almeno taggami così salgono i follower. Elia ha guardato, riprodotto e conservato tutto quel che ha potuto nei 15 minuti di Instagram al giorno concessi dai suoi genitori (al quindicesimo minuto scatta il blocco fino al giorno dopo).
È stato paziente e rigoroso, come avrebbe fatto un giornalista d'inchiesta. Sua madre, fiera, tiene a dire che «qui nessuno cerca visibilità. Ho lavorato molto per ricostruire i passaggi di questa storia perché sono fatti che fanno male alla vita di tutti e che contribuiscono ad alimentare un'immagine delle donne totalmente distorta. Vorrei tanto che questa vicenda accendesse un campanello d'allarme nei genitori e spero che serva a portare alla luce l'assurdità di questi meccanismi nei quali si perdono i ragazzi e, molto di più, le ragazze». Molti, è vero. Non suo figlio.