Vera Schiavazzi per “la Repubblica”
«Tengo 200 bovini, e so il nome di tutti. Beh, quasi, se un vitello ha quattro giorni glielo segno sopra con una matita. Quando entro nella stalla, guardo Tempio, il mio toro segnalatore: se è coricato o mangia va tutto bene, se è agitato vuol dire che c’è una vacca in calore, o qualcos’altro che non è come al solito. Poi guardo Oasi, la vacca più bella, e sono sicuro che è tutto a posto».
Mauro Olivero, 37 anni, ha iniziato nel 1996 a cambiare l’allevamento della sua famiglia, vicino a Fossano (Cuneo). Ha slegato le vacche, ha creato per tutti gli animali un box fino a cinque metri, ha puntato alla qualità della carne, che vuol dire innanzi tutto benessere di chi la produce. Gli allevamenti come il suo, o come quelli di polli o maiali nutriti in modo naturale e fatti vivere più a lungo, sono ancora pochi ma potrebbero diventare la maggioranza, a mano a mano che anche l’Italia applicherà le norme europee e che le etichette sulla carne verranno lette meglio da chi consuma.
Olivero ha tolto la soia, gli integratori, i farmaci, e ha iniziato a piantare prati polifiti, con due o tre varietà di foraggio protette da funghi speciali, e a nutrire la stalla con quelli. Ora è contento: «Tutto sta nascendo dal basso. Per noi, nella zona dove siamo, è difficile far uscire gli animali all’aperto. Ma attraverso il cibo e una linea intera che porta dalla vacca al vitello e che non punta solo al denaro ma a soddisfare i consumatori stiamo riuscendo a fare un buon lavoro. Ora tante aziende chiedono di entrare nella nostra cooperativa, ma siamo molto selettivi».
Tra i risultati, c’è la vita media: «Lasciamo alle mucche il tempo di partorire, 370 o 380 giorni tra un vitello e l’altro, e al vitello il tempo di stare con la madre. Nella stalla ho una vacca che ha 18 anni e ha partorito quindici volte, quando l’età media è di 11».
Chi alleva gli animali pensando al loro benessere non è, o almeno non sempre, un pastore dei tempi antichi che vaga di pascolo in pascolo o tiene dieci galline in cortile. Il modo “buono” di creare la carne, immaginando che chi va a comprarla possa mangiarne meno di oggi e pagare un po’ di più, è fatto soprattutto da una nuova agricoltura intensiva, che tende a fare da sé in ogni azienda: produrre il cibo, allevare gli animali dall’inizio alla fine, accompagnarli al macello senza stress e magari anche prepararli per lo scaffale del supermercato o il bancone del negozio.
«È difficile spiegare ai clienti “cittadini” che cosa facciamo, come selezioniamo la genetica, perché è importante piantare i prati e non solo mettere fuori i vitelli — dice Sergio Capaldo, veterinario e responsabile delle carni per Slow Food — I nostri animali vivono più a lungo, pesano meno, la loro carne ha bisogno di essere frollata perché macelliamo dai due ai dodici anni. Ma la qualità è incomparabile».
Capaldo si sposta da un allevamento all’altro: «Oggi seguo un centinaio di aziende, un totale di 10.000 capi, abbiamo rilanciato la vacca piemontese e siamo riusciti a ottenere un prezzo equo per venderla. Bisogna volerla comprare, evitando i polli a basso costo o il prosciutto a 5 euro al chilo, e capendo che anche per i bambini è meglio masticare un po’. Dai nostri allevamenti abbiamo tolto i farmaci allopatici, a parte i vaccini, Al nord, gli animali stanno ancora nella stalla, ma slegati, come tra poco le leggi europee obbligheranno a fare. Ma il benessere lo vedi anche nella tranquillità di ogni vacca».
MUCCHE AL PASCOLO - copyright Pizzi
A Montiglio Monferrato, nell’azienda La Fornace, Alessandro Varesio alleva i polli “come una volta”. «Sono nato in una famiglia che faceva già questo lavoro, ma 15 anni fa ho cambiato tutto — racconta — Sono stato in Francia e ho preso un po’ di idee, ho cambiato razza dal Ross 708, il classico pollo delle grandiaziende, e alimentazione. Quando macello i miei polli, a 90 giorni anziché a 60, pesano un chilo e otto etti contro i due e mezzo di quelli industriali. Facciamo tutto noi, dal pulcino all’adulto, ogni animale può uscire in cortile quando vuole e ha a disposizione almeno due metri di erba per sé, anche il mais lo produciamo in azienda. E quando si va al macello io non carico gli animali sul camion la sera prima, ma solo al momento di andare, non voglio che si stressino e abbiano paura ».
Dal 2000, l’azienda di Varesio ha deciso di confezionare e etichettare la propria carne: «Costa fino a quattro volte in più di quella dei polli tenuti nelle stie, ma è sana, perché i polli che vivono liberi non si ammalano e non prendono medicine, e si può comprare anche senza essere milionari. La vendiamo a chi viene qui e ad alcuni negozi specializzati. Mi piace guardare i miei polli la mattina, con le loro piume rosse. Come oggi: se vedono che c’è la neve, escono lo stesso per razzolare quel che c’è sotto».
Oggi i polli come quelli di Montiglio sono pochi, meno del 10 per cento su tutto il mercato, e la parte del leone la fanno due grandi aziende. Ma presto le leggi europee renderanno vietato tenere i polli ammucchiati nei capannoni: allevare biologico è, anche, anticipare un futuro dove la carne verrà mangiata tre o quattro volte in meno nella dieta degli italiani, ma scelta in base alla qualità.
In Romagna, sull’Appennino di Civitella, Lisa Paganelli, 37 anni, ha cominciato con i vitelli biologici, poi è passata a allevare anche maiali e polli.
«Abbiamo sostituito il mais con altri cereali, e produciamo anche il foraggio — racconta — Abbiamo più di 40 ettari di pascolo e bosco e teniamo un toro per ogni gruppo di vacche in modo che si crei una gerarchia. I capi tenuti senza affollamento non si ammalano, usiamo la fisioterapia e i farmaci naturali tranne quando c’è una sofferenza al momento del parto o dei primi giorni di vita, in casi molto rari. E non facciamo tagli cesarei. Se c’è bisogno di una balia per il latte abbiamo delle vacche Limousine. I nostri maiali vivono allo stato semibrado, in questo modo non si annoiano e non si attaccano tra loro. Non ci sono gabbie per le scrofe che allattano, vengono addormentati prima del macello, poi li stagioniamo e li vendiamo qui intorno, nella zona, e forniamo le mense scolastiche. Non vogliamo andare nella grande distribuzione, perché non possiamo competere con i prezzi dei grandi produttori».
La prossima tappa? I conigli. L’Italia è un grande produttore, e gli animali stanno in gabbia, senza la possibilità di sollevarsi sulle zampe o saltare: «In questo modo — dice Elisa Bianco, responsabile dei rapporti con le aziende alimentari per l’Italia di Ciwf (Compassion in World Farming) gli antibiotici sono indispensabili. Ora partiremo con una campagna per loro».
POLLO allevamenti allevamento intensivo galline