Patricia Tagliaferri per il Giornale
Le foto pubblicate sul suo profilo Facebook, curato e ben vestito, e anche i racconti di un comportamento senza sbavature da parte di chi ha avuto a che fare con lui in precedenza per qualche lavoretto o corso di formazione, raccolti dai suoi difensori, stridono con le modalità agghiaccianti degli stupri di Rimini così come emerse dai verbali delle vittime e dalle parole dei giudici che hanno convalidato i fermi di Guerlin Butungu, il congolese ventenne considerato il capobranco, e dei suoi tre complici minorenni, due fratelli marocchini e un nigeriano sedicenne.
un uomo «incapace di frenare-controllare malsani istinti e appetiti sessuali, del tutto insensibile al rispetto dell'altrui integrità fisica e sessuale». Tutto ciò, appunto, come si legge nell'ordinanza, «a dispetto di un modo di fare e di un aspetto apparentemente gentile ed educato, forse anche abilmente utilizzato proprio per adescare le giovani vittime».
Lo stesso atteggiamento che il congolese ha tenuto durante l'udienza di convalida, quando dopo un primo tentativo di negare tutto, della serie «non c'ero e se c'ero dormivo», è stato convinto dai suoi legali, Mario Scarpa e Ilaria Perruzza, ad essere più collaborativo ed ha cominciato a fare qualche ammissione, scaricando però quasi tutto addosso agli altri tre. «Nessun segno di pentimento, né una qualche consapevolezza dell'estrema gravità delle azioni compiute», osserva il gip.
Compito dei magistrati - adesso che i quattro giovani sono in carcere e che il gip ha convalidato il fermo riconoscendo il lavoro della Procura - è quello di attribuire a ciascuno di loro specifiche responsabilità, riordinando le accuse reciproche che si rivolgono l'uno contro l'altro nel tentativo di minimizzare il proprio ruolo negli stupri. Servirà isolare il Dna dai reperti per verificare le versioni degli arrestati su chi ha abusato della giovane polacca e chi della transessuale e quella del congolese, che finora ha cercato di ritagliarsi un ruolo di secondo piano nello stupro della ragazza, mentre i complici hanno tentato di scaricare tutto su di lui, l'unico maggiorenne del gruppo.
Il magistrato vorrebbe la piena confessione di Butungu, che potrebbe arrivare a brevissimo. I suoi legali stanno lavorando in questa direzione, cercando di fargli capire che è questa la strada migliore da percorrere in attesa di un processo, un probabile rito abbreviato che non arriverà prima di qualche mese, e di una condanna inevitabile e pesante. Il gip ha dimostrato di non credere alle accuse che il congolese ha rivolto ai suoi complici: «Menzogne, anche lui partecipò attivamente e in prima persona alla violenza di gruppo».
Pure il giudice minorile Anna Filocamo ha sottolineato la brutalità con cui ha agito il branco. Nel suo provvedimento ha sottolineato la «spregiudicatezza» «l'inutile cattiveria» con cui hanno agito i tre infliggendo «inutili sofferenze alle vittime» e suscitando «un allarme sociale di proporzioni rare». E nel raccontare che era il congolese a soggiogarli, i minorenni hanno mostrato «personalità gravemente inconsistenti ed incapaci di rendersi conto dell'estrema gravità delle condotte realizzate».
Intanto uno dei difensori di Butungu, l'avvocato Perruzza, ha ricevuto pesanti insulti e minacce per aver accettato la difesa dello stupratore. «La gente non capisce che un Paese civile si riconosce anche dall'ordinamento giuridico che ha», osserva il collega Scarpa.
STUPRO DI RIMINI, "QUELLA FAMIGLIA DOVEVA ESSERE RIMPATRIATA"
Roberto Damiani per ‘Il Resto del Carlino’
Dovevano essere in Marocco da almeno tre anni, e con le tasche piene di soldi. Pagava lo Stato italiano, che ha cercato in tutti i modi di far rimpatriare quella famiglia marocchina formata da quattro figli, due dei quali ora in carcere per lo stupro di Rimini (le foto dell'arresto).
Il sindaco di Vallefoglia Palmiro Ucchielli, dove la famiglia è residente in un alloggio popolare, dice: «Era il 2014. Avevamo trovato i soldi, più o meno 5 mila euro a persona o forse di più, per farli rientrare in Marocco dove si trovava il padre già espulso. Tutto era pronto, anzi madre e i quattro figli erano andati in caserma per partire. Poi non so cosa sia successo ma attraverso il tribunale dei minorenni ci siamo ritrovati il padre di nuovo a Vallefoglia mentre noi ci aspettavamo che la famiglia se ne andasse per sempre».
«Ricordo – continua il primo cittadino – che non era d’accordo col rimpatrio nemmeno il console, ma alla fine c’era stato il nulla osta. Poi è saltato tutto e la famiglia oltre al padre è rimasta qui».
Meglio chiarire di più. Per il rimpatrio nella nazione d’origine di figli minorenni nati in Italia occorre che ci sia il consenso dei genitori. Altrimenti i nativi non possono essere cacciati dall’Italia.
E la madre in quel momento aveva detto di sì, accettando 20/25 mila euro in tasca e il viaggio pagato. Poi improvvisamente ci ha ripensato. Ed è facile capire perché: il marito ha impedito l’accordo perché così sarebbe potuto tornare in Italia, benché espulso da anni, in modo di ricongiungersi con la famiglia. E infatti è tornato illegalmente (ha patteggiato per questo una pena ad 1 anno e 4 mesi che sconta ai domiciliari). Davanti al tribunale dei minori di Ancona, che l’ha autorizzato a rimanere, ha promesso che col suo rientro avrebbe messo in riga i figli.
Dopo tre anni, due figli in carcere, il padre di 51 anni agli arresti domiciliari, la madre andrà a processo sotto la spinta di cinque querele presentate dalla vicina di casa che si sente perseguitata sia dalla donna che dai figli, inviati a insultarla e picchiarla. Una prognosi di quindici giorni di guarigione è l’ultimo regalo che hanno fatto alla spaventatissima vicina. La quale ha ottenuto dal questore che la madre dei due minori accusati del doppio stupro di Rimini, venisse ammonita per stalking.
Ma poi succede anche che il padre, accortosi dalle immagini degli stupratori pubblicate dal Carlino, imponesse ai figli di andare a costituirsi dal maresciallo del paese, Vallefoglia, e solo da lui. Hanno pure chiamato prima per sincerarsi se ci fosse. Altrimenti «sarebbero ripassati».
I carabinieri, che spesso hanno fatto la colletta per comprare da mangiare a quella famiglia, sapevano con chi avevano a che fare ma certo non immaginava ciò che avevano fatto.
I due fratelli marocchini sono conosciutissimi a Vallefoglia, fin da quando frequentavano la scuola media. Insegnante di sostegno continuo, facevano i bulli e ogni tentativo di dargli una regolata finiva male.
Dice una loro insegnante: «Il problema vero è che questi due fratelli erano abbandonati a loro stessi. Non avevano da mangiare, letteralmente. Facevamo degli acquisti a turno per comprargli panini e cibo. Avevano delle potenzialità positive ma la loro condizione familiare azzerava tutto. Sapevano di non dover rendere conto a nessuno, perché il padre a quel tempo era in Marocco, forse in carcere, e qui stavano con la madre, che non lavorava, e altri due fratellini. Il Comune pagava bollette, spesa, affitto, la Caritas offriva il pacco ma quei figli non studiavano e non volevano ascoltare. Perché non erano stati educati a farlo. Oggi purtroppo abbiamo avuto la prova di cosa ha prodotto quell’abbandono».
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