Simona Siri per “La Stampa”
Il September Issue, il numero di settembre di Vogue America, così mitologico e importante nel mondo della moda da essersi meritato un documentario, potrebbe quest’anno trasformarsi in un incubo per Anna Wintour, altrettanto mitologica direttrice della rivista. Secondo quanto riporta la reporter Emily Prescott lo staff è sul piede di guerra, pronto a scioperare e a mettere in pericolo non solo il prestigioso mensile, ma anche gli introiti pubblicitari che il numero – ai tempi d’oro spesso centinaia di pagine – garantisce.
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I motivi della protesta sono di quelli ormai ricorrenti anche nel mondo (una volta) dorato di quell’editoria: aumento dei salari, contratti più sicuri, riconoscimento sindacale. Le stesse rivendicazioni che avevano mosso un mese fa i dipendenti di Wired. A luglio, minacciando uno sciopero durante gli Amazon Prime Days, il 12 e 13 luglio, ovvero i giorni di traffico più redditizi per la rivista in termini di acquisti online, i dipendenti erano riusciti a ottenere, dopo 14 mesi di contrattazione, un accordo con la Condé Nast.
«Non sarebbe dovuta servire la minaccia di uno sciopero per la leadership dell’azienda per raggiungere finalmente un accordo, ma siamo così entusiasti di aver finalmente ottenuto questo riconoscimento e impegno da parte loro», aveva affermato all’epoca Lily Hay Newman, presidente della Wired Union Unit che guidava i lavoratori al grido di «nessun contratto, nessun clic».
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Lo stesso slogan ripetono oggi anche i dipendenti della più glamour Vogue: dai loro colleghi hanno imparato a colpire Condé Nast dove fa male, ovvero negli introiti pubblicitari. La sola minaccia di sciopero aveva fatto perdere a Wired diversi milioni di dollari. «Ci sono molte più persone che mostrano i loro badge “Conde Union” sulle loro e-mail di lavoro e sui profili di chat Slack», ha scritto Prescott nel suo pezzo, citando fonti interne all’azienda.
Le copertine di Vogue con Kamala Harris
Come a dire che i dipendenti non hanno più remore a esplicitare la loro appartenenza e la loro fede nel sindacato, un sentimento che accomuna anche i dipendenti di Amazon e Starbucks, per citare due grosse aziende attraversate di recente dal vento della sindacalizzazione. Certo, quando a scendere in strada e a protestare per avere stipendi decenti è chi lavora nel mondo del lusso e della moda, è tutto un altro effetto: è subito lotta di classe.
Ne sono consapevoli quelli che già l’anno scorso avevano marciato con tanto di picchetti e cartelli davanti alla casa di Wintour, nel super esclusivo West Village, un quartiere di Manhattan dove i proprietari sono ormai tutti multi milionari e dove la gente normale non si può permettere neanche più di viverci in affitto (si parte da cinquemila dollari al mese per un bilocale).
In questo senso Wintour è un bersaglio facile: oltre che storica direttrice di Vogue e personaggio icona e oltre a essere anche capo dei contenuti di Condé Nast a livello mondiale, è simbolo di un giornalismo d’altri tempi, quando i budget erano illimitati e non si badava a spese, un giornalismo che faceva del lusso, e dello spreco, quasi un vanto. Un mondo che non tornerà mai più. La prima a esserne consapevole è proprio lei, la mitica Anna: «Siamo tutti d’accordo che bisogna puntare di più sulla sostenibilità e sulla creatività e meno sul lusso», ha detto a Naomi Campbell sul canale YouTube della modella durante un’intervista sulla moda in post pandemia. «Sarà necessario ripensare agli sprechi, ai soldi, al consumismo e agli eccessi a cui tutti, io per prima, ci siamo abbandonati». «Bosses wear Prada, workers get nada» è uno degli slogan che accompagna le proteste contro di lei. E chiunque l’abbia inventato, l’aumento se lo merita.
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