Guido Santevecchi per "www.corriere.it"
Una settimana fa Chloé Zhao era «l’orgoglio della Cina». La regista del film indipendente «Nomadland» aveva appena vinto il Golden Globe, prima donna di nascita cinese a ricevere il premio. Ma la popolarità è molto pericolosa nella Repubblica popolare, soprattutto se viene conquistata negli Stati Uniti, e l’artista si è subito trovata sotto attacco da parte dei «Piccoli Rosa», setacciatori del web che hanno indagato sul suo passato e hanno sentenziato che è una traditrice.
Chloé Zhao, 39 anni, è nata a Pechino (il suo nome è Zhao Ting) ed è emigrata prima a Londra e poi negli Stati Uniti quando era sedicenne. Ha cominciato a lavorare nel cinema, ha avuto successo come sceneggiatrice, produttrice, montatrice e regista delle sue opere. Una artista eccezionale.
Ma è restata cinese o è diventata una sino-americana? Questa la domanda che ha cominciato a rimbalzare sulla rete in Cina. E indagando, qualcuno ha trovato una vecchia intervista del 2013 alla rivista «Filmmaker» nella quale Zhao osservava di aver vissuto da ragazza «in un Paese dove le menzogne sono dappertutto» e che quella memoria l’aveva aiutata nella sua creazione artistica, che però si è sempre concentrata sulle contraddizioni della società americana dove non per tutti i sogni di ricchezza si avverano.
Messi comunque in allarme, i cacciatori hanno trovato un altro presunto insulto alla madrepatria. In una dichiarazione del 2020 a una rivista online australiana era comparsa la frase «The US is now my country, ultimately» (Gli Usa ora sono il mio Paese, in definitiva). Non è servito che il sito australiano avesse da tempo pubblicato una correzione sostanziale: la signora non aveva detto «now» (ora), ma «not» (non) e quindi la regista sente che l’America non è diventata il suo Paese, in definitiva. Il danno però era fatto; il tamtam dell’inquisizione nazionalista (cinese pura e patriottica o sino-americana?) ha trasformato sui social network l’orgoglio per il Golden Globe in condanna.
È intervenuto anche un ufficio dell’Accademia delle scienze sociali, think tank governativo della cultura cinese, con un avvertimento al pubblico: «Non bisogna mai avere fretta nell’elogiare qualcuno, prima si deve guardare attentamente all’atteggiamento nei confronti della Cina». La programmazione di «Nomadland» sul mercato cinese era prevista per il 23 aprile, ma ogni riferimento al film è stato improvvisamente rimosso dalla piattaforma Douban, che pubblica recensioni e pubblicità cinematografica; l’hashtag #Nomadland è stato bloccato su Weibo, il Twitter mandarino. Le autorità non hanno ancora comunicato un ripensamento sull’uscita della pellicola. Giudizio sospeso, in attesa di vedere se i potenti netizen del web mandarino si placheranno.
Il caso di Chloé Zhao dimostra che neanche la capillare censura cinese è in grado di comprendere e dominare completamente il patriottismo nazionalista del web: una sorta di genio che il Partito comunista ha fatto uscire dalla bottiglia dello scontro con gli Stati Uniti e ora non può rinchiudere neanche di fronte a comportamenti assurdi). Lo dimostra un altro caso, raccontato al Corriere della Sera dal regista Hao Wu, cinese trapiantato a New York, autore di un documentario sui 76 giorni di battaglia di Wuhan contro il coronavirus.
La pellicola, girata negli ospedali della città ground zero della pandemia, potente e delicata, assolutamente apolitica, è stata ben accolta all’inizio dal pubblico cinese, che ha potuto vedere solo i trailer per il mercato americano: «Ma poi, quando si è cominciato a parlare di candidatura all’Oscar, sono entrati in azione i soliti troll patriottici del web, che hanno scavato nel mio passato (Hao Wu nel 2006 fu incarcerato in Cina per cinque mesi quando stava girando un documentario sulla repressione religiosa, ndr), hanno esaminato la mia filmografia e mi hanno accusato di essere un traditore e una “banana” (il termine usato per insultare un cinese espatriato negli Stati Uniti come Hao Wu, giallo fuori e bianco dentro, ndr); per questi nazionalisti odiatori il fatto che il mio lavoro sia apprezzato all’estero sarebbe sfruttamento della tragedia di Wuhan per compiacere il pregiudizio dell’Occidente e infangare la Cina».
Una volta, negli Anni 60, c’erano le Guardie Rosse della Rivoluzione Culturale maoista, che insultavano e picchiavano in strada e mettevano alla gogna in piazza «i neri controrivoluzionari». Ora che il «dibattito» si svolge sull’enorme piazza virtuale del web, in Cina la nuova falange di militanti si chiama Piccoli Rosa (xiao fenhong in mandarino). Condannano e linciano online i trasgressori della morale nazional-comunista e comunque chiunque critichi la Repubblica popolare cinese.
Non sono meno violenti, con le parole, delle Guardie Rosse e secondo le rilevazioni sono in grande maggioranza ragazze. Basta un piccolo indizio, un dubbio e parte quella che in Cina si chiama da tempo la «caccia alla carne umana»: la ricerca sul web da parte di migliaia di persone di prove sulla «depravazione» o la corruzione di questo o quel personaggio pubblico.
Uno studio della Peking University e dell’Accademia delle scienze sociali ha rilevato che questi cyber-patrioti sono nella stragrande maggioranza patriote: per l’83 per cento sono ragazze tra i 18 e i 24 anni. Il nome Piccoli Rosa deriva dall’origine: questo movimento cinese online partì una dozzina d’anni fa come gruppo di commento letterario di romanzetti d’amore e la sua pagina web ha mantenuto come sfondo il rosa. I partecipanti si chiamarono tra di loro «xiao fenhong», piccoli rosa e discutevano di tutto, dalla cultura ai trend sociali. Una parte del movimento si è poi dedicata alla difesa dei valori patriottici e al nazionalismo. La grande maggioranza risiede in città di seconda e terza fascia della Cina, in provincia quindi, dove gli ideali conservatori e ultra-patriottici sono più radicati.
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