Roger Abravanel per il "Corriere della Sera"
Molti osservatori vedono nella vittoria di Wembley un possibile segnale per la ripresa del Paese. Il New York Times applaude alla rinnovata credibilità internazionale del paese di Mancini e Mario Draghi mentre ogni giorno fioriscono dalle nostre parti interpretazioni più o meno creative sulla riscossa del Paese grazie alla vittoria degli azzurri.
Un sottosegretario ha dichiarato che la vittoria porterà il 7% di PIL in più mentre un quotidiano nazionale è uscito con un pezzo «Tra scherma e industrie hi-tech, la Jesi del Mancio ostinata e di successo» nel quale inneggia alle solite «Multinazionali tascabili» come piattaforma del rilancio economico in parallelo al successo globale dei suoi talenti sportivi come Mancini e Valentina Vezzali. La vittoria agli europei è stata sicuramente un piccolo miracolo se teniamo conto che in tre anni Mancini ha costruito una squadra vincente sulle macerie della eliminazione agli ultimi mondiali.
Lo ha fatto senza possedere grandi talenti e contro squadre molto più favorite. Più che attendere magici impulsi alla crescita delle nostre imprese dalla vittoria di Wembley solo grazie alla riscossa degli italiani galvanizzati dall'essere diventati i primi d'Europa nello sport più popolare, vale la pena di soffermarsi su ciò che potrebbe imparare dal successo degli azzurri il nostro ecosistema di imprese, università e istituzioni pubbliche responsabili di un rilancio della nostra economia post-covid, reso più difficile da una accelerazione della economia della conoscenza e del talento sulla quale siamo già in grave ritardo. Innanzitutto l'ambizione dichiarata da Mancini di volere costruire un progetto vincente agli europei.
Ambizione che troppo spesso manca al nostro capitalismo famigliare che si rifugia nelle «nicchie» e nelle «multinazionali tascabili» e fa sì che oggi siamo il fanalino di coda nelle Fortune 500 , le più grandi aziende del mondo , appunto quelle che vincono nella economia della conoscenza e creano i posti di lavoro ben retribuiti per i laureati che da noi oggi mancano.
L'ambizione di Mancini &Co si è poi tradotta in un atteggiamento nei confronti del rischio e della innovazione (attaccare e non difendere, giocare senza centravanti ecc.) che manca totalmente a molte delle nostre imprese che rigettano nuove (e quindi rischiose) forme di crescita e competitività globale come le acquisizioni, l'e-commerce, il marketing ecc.
L'ambizione e la ricerca della eccellenza latitano anche nell'altro protagonista della crescita nella economia della conoscenza, i nostri atenei. Mentre la classifica Qs metteva al 149mo posto la migliore università italiana, il Politecnico di Milano, da noi si celebrava una ricerca di Italia-decide, Intesa e Luiss che dimostrava che il 40 percento delle università italiane rientra tra le prime 1.000 del mondo.
Il progetto ambizioso di Mancini si è tradotto infine in un'altra dimensione particolarmente carente nelle nostre imprese famigliari e nelle università, la meritocrazia. Selezionare talenti e metterli al posto giusto , puntando su «anziani sicuri» (Bonucci e Chiellini), scoprendo giovani poco noti (Pessina e Locatelli) e facendo rifiorire altri un po' spenti nel campionato (Bernardeschi). Lo stesso Mancini è il risultato di una selezione e non è lì perché suo padre guidava la nazionale.
mancini vacanze in italia spot ministero del turismo
Meritocrazia sconosciuta nel capitalismo familista italiano che durante le settimane di euro 2020 ci sottoponeva all'antico e deprimente rito dei politici che portavano i loro omaggi al convegno di Confindustria «giovani imprenditori» che in gran parte sono figli di imprenditori (sempre meno giovani). Per non parlare del rifiuto cronico da parte dei nostri atenei della meritocrazia e della competizione che portano da sempre a scandali sulle carriere dei docenti e alla fuga dei «cervelli» che ormai non scandalizzano più nessuno.
IL COLPO DI TACCO DI ROBERTO MANCINI DURANTE ITALIA GALLES
Infine la forza della idea di «squadra» azzurra che manca totalmente a un ecosistema economico in cui le regioni competono tra loro per promuovere a Shanghai il Bel Paese e il potere giuridico blocca la crescita delle imprese paralizzando il potere decisionale della PA e la giustizia civile.
Le lezioni dalla vittoria di Wembley per l'ecosistema economico italiano sono interessanti anche se il rilancio del Paese è sfida ben più complessa della vittoria a euro 2020. Il paragone calcio-economia è un po' stiracchiato perché, se l'ultimo «miracolo economico» e di 50 anni fa, di «miracoli calcistici» ce ne sono stati diversi prima di quello di Wembley. Un secondo posto nel '70 dopo la mancata partecipazione del '66, quarto e primo posto nel '78 e '82 dopo l'eliminazione al primo turno del '74, vittoria ai mondiali del 2006 dopo l'eliminazione al primo turno del 2002.
matteo pessina esulta davanti a roberto mancini
Alla fine, ogni 10-15 anni un miracoletto l'Italia del calcio lo ha sempre piazzato. Perciò, anche se c'è molto da imparare dal successo di Wembley, la sfida e le ricette per riscattare un ciclo negativo calcistico non sono le stesse di quelle per invertire un declino quasi secolare. Soprattutto viene da chiedersi perché il mondo dell'economia e delle istituzioni italiane non riesce da cinquant' anni a darsi una iniezione di ambizione, innovazione, meritocrazia e spirito di squadra come invece fa, periodicamente, la nostra nazionale.
Qui, forse, una differenza chiave la facciamo noi italiani: tifosi esigenti nel chiedere un cambiamento dopo le sconfitte ma cittadini e operatori economici sonnacchiosi che tollerano un declino che va avanti da cinquanta anni illudendosi che vada tutto bene, senza provare davvero a capire cosa non va e accettando senza critiche le numerose sbagliate diagnosi e ricette proposte delle élite imperanti della politica e della economia e in più diffuse da media di bassa qualità.