Silvia Mancinelli per Il Tempo
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Venti condanne per emissione di assegni a vuoto, una per usura, un’altra per estorsione. La carriera delinquenziale di Vittorio Casamonica, definito un boss all’indomani della sua morte, farebbe crescere – e non poco – l’autostima del Padrino di Francis Ford Coppola al quale più volte in questi giorni il 65enne di Venafro è stato paragonato. Evidentemente, stando alla fedina penale del defunto, a Vito Corleone lo zio del «clan» rom-abruzzese ha copiato solo la musica.
Nel 1970, quando aveva 20 anni, il primo grosso «guaio» con la giustizia, per aver acquistato soprattutto macchine con assegni a vuoto. Da lì, e fino al 1991, altre 19 condanne accumulate per lo stesso identico reato tra Roma, Termoli, Arezzo, Pesaro, Catanzaro e Rieti.
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«Zio commerciava in autovetture – aveva spiegato il nipote Luciano Casamonica - le uniche colpe che aveva erano assegni protestati o truffe, niente di serio». Nel 1991, stavolta nella Capitale dove vivrà fino alla sua morte, lo scorso martedì 18, la ottiene con l’accusa di usura.
Da allora c’è un buco nella fedina penale lungo quattordici anni: bisognerà aspettare il 2005, anno dell’ultima comparsa davanti ai giudici del «reuccio» dei Casamonica, per l’ultima condanna: un’estorsione, sempre a Roma, per la quale l’allora 55enne scontò la pena prima di scomparire dal casellario giudiziario.
Negli ultimi tempi gli strascichi di una vita non sempre limpida: a procurargli i soliti «grattacapi», ancor prima che la malattia lo strappasse alle sentenze del giudice terreno, il pagamento di fuoriserie italiane e tedesche con assegni scoperti. Per la vendita di una Ferrari, nelle prossime settimane, si sarebbe dovuto presentare in corte d’Appello imputato per truffa.
«Da dieci anni era pulito – confermano i familiari per i quali lo zio era il Re di Roma -. Ha sbagliato, chi lo nega? Ma chiamarlo boss è eccessivo». La debolezza più grande dell’adorato zio dei Casamonica, ancora oggi in lutto, era la velocità. Che lo aveva fatto spesso scivolare in acquisti spericolati.
«Comprava macchine bellissime – aggiunge il nipote affranto - era la sua fissa. Il funerale in Rolls Royce era una delle volontà espresse prima di morire. Era malato da cinque anni, aveva il desiderio di essere salutato così. Non era un mafioso, ci state facendo passare per quello che non siamo».
«Avrà fatto qualche truffa - sminuisce una delle tante parenti - Se la giustizia fosse severa come sono oggi i commenti su mio zio, la metà degli italiani sarebbe in carcere. Un boss mafioso uccide, un criminale stupra le donne, tocca i bambini. Noi, e zio Vittorio per primo, non abbiamo mai fatto cose simili».
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