Niccolò Carratelli per "la Stampa"
Una pandemia a impatto demografico limitato, almeno per ora. Sembra una provocazione, di fronte agli oltre 126 mila morti causati dal Covid in Italia, eppure è così. L' analisi contenuta nella Relazione annuale della Banca d' Italia, propone un paragone con un' altra terribile epidemia, quella dell' influenza «Spagnola» nel biennio 1918-19. Un secolo fa, nel nostro Paese, «il numero di morti per abitante fu circa otto volte quello ufficialmente attribuito finora al coronavirus - si legge nello studio - e la letalità fu particolarmente elevata tra le coorti al di sotto dei 40 anni, mentre nella crisi attuale i decessi sono concentrati nella popolazione di età superiore ai 64 anni». L' effetto immediato, nella sua crudezza statistica, è che «il drammatico numero di perdite umane nel 2020 ha alterato in misura limitata la dimensione della popolazione in età attiva e la composizione per classi di età».
Questo non vuol dire che la pandemia non avrà, nei prossimi anni, importanti conseguenze sull' assetto demografico del nostro Paese. Anzi, lo studio Bankitalia lancia in questo senso un allarme preciso: è prevedibile che il Covid farà calare le nascite e i flussi migratori, con effetti demografici a lungo termine deleteri per l' economia italiana.
Bisogna considerare che il nostro punto di partenza è già negativo: nel 2019 il tasso di fecondità era di 1,3 figli per donna in età fertile, un «valore molto al di sotto della soglia che assicura il rimpiazzo numerico tra generazioni».
Basti pensare che poco meno di 60 anni fa, nel 1964 (picco delle nascite), il tasso di fecondità era al 2,7, con un milione e 16 mila neonati, mentre nel 2020, fin qui l' anno peggiore del dopoguerra, le nascite sono state 404 mila, il 60% in meno, e ci sono stati 342 mila morti in più. Ma quest' anno, a causa della pandemia, faremo ancora peggio: a dicembre del 2020 e gennaio del 2021, le nascite su base mensile sono state più basse rispettivamente del 10,3% e del 16,7% sul periodo corrispondente.
D' altra parte, il peggioramento delle prospettive economiche potrebbe frenare i flussi migratori verso l' Italia: per qualcuno sarà sicuramente una buona notizia, ma è utile ricordare che proprio «il tasso migratorio netto, nello scorso ventennio, ha attenuato la tendenza alla riduzione della popolazione in età attiva derivante da una bassa natalità».
Gli analisti di via Nazionale, quindi, hanno stimato gli andamenti di nascite e migrazioni in risposta all' aumento previsto del tasso di disoccupazione tra il 2021 e il 2023. E hanno previsto l' evoluzione nei prossimi decenni, con un forte ridimensionamento della popolazione in età attiva e un proporzionale aumento del tasso di dipendenza della popolazione anziana. Insomma, sempre meno quelli che lavorano per pagare le pensioni degli anziani ormai non più attivi: «Nel 2065 la popolazione tra i 15 e i 64 anni segnerebbe una riduzione, rispetto allo scenario Istat pre-pandemia, di entità compresa tra 1,6 e 2,9 milioni».
Con un doppio binario da mettere in conto: «La riduzione delle migrazioni nette, associata all' epidemia, contribuirebbe per circa la metà al maggior calo e avrebbe conseguenze immediate sulla dimensione della popolazione attiva. L' effetto della minore natalità si manifesterebbe invece a partire dal 2035».
C' è tempo e modo per provare a modificare questo andamento demografico e ad alleviare le sue conseguenze economiche e sociali. Scontate, ma obbligate, le strade indicate dai tecnici di Bankitalia. Innanzitutto, «un' efficace azione di sostegno alla crescita, in cui rientra una rapida attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza, potrà diminuire il tasso di disoccupazione, migliorare le condizioni economiche delle famiglie, ridurre l' incertezza».
Poi le «misure di sostegno alla natalità e le politiche per una gestione ordinata dei flussi migratori e per l' integrazione degli immigrati». Il sociologo Domenico De Masi, in una recente intervista su Specchio, il settimanale de La Stampa, ha semplificato il concetto: «Se ci saranno meno giovani, basterà aprire le frontiere, perché se anche gli italiani si mettessero tutti a procreare ci vorranno 20-25 anni prima che questi neonati possano entrare nel mondo del lavoro».
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