Daniela Monti per il “Corriere della Sera”
«Stamattina ho fatto le prime inoculazioni dei farmaci iniettivi, stasera prenderò per l'ultima volta (spero) la pastiglia rosa pallido che, da sei anni, piega i miei orari e reclama la mia (labile) capacità organizzativa. Cambia tanto ora per le persone che convivono col virus dell'Hiv, cambia davvero tantissimo, anche se nessuno ne parla».
In un post sui social ne ha parlato lui, Jonathan Bazzi, milanese di Rozzano, 37 anni, lo scrittore che in Febbre - finalista allo Strega nel 2020 - aveva ripercorso la scoperta della propria positività. E Bazzi torna a parlarne qui, fedele a quel suo personale mantra che ne ha fatto uno scrittore dalla voce libera e potentissima: raccontare tutto, sempre.
Al posto della pastiglia quotidiana, l'iniezione di due antiretrovirali, il cabotegravir (una nuova molecola) e la rilpivirina (utilizzata dal 2013). CaRLA il nome dato alla terapia, la prima a lunga durata - le iniezioni vanno fatte ogni due mesi - disponibile in Italia dallo scorso luglio.
Niente più pastiglia. Sta elaborando l'astinenza?
«Dal 2016 mi sono allenato a quell'appuntamento quotidiano, ovunque fossi, qualunque cosa stessi facendo. Assunzione a stomaco pieno, dopo aver ingerito almeno 350 calorie. Ora sperimento il vuoto positivo: non suona più la sveglia che io e il mio compagno Marius abbiamo sul telefono per non dimenticarla. Di tanto in tanto ho dei trasalimenti: oddio la pastiglia...»
Quando ha fatto le prime iniezioni?
«Mercoledì. Due principi attivi in due diverse iniezioni, una per gluteo. Uno è più denso e quindi la puntura ha fatto un po' male: mentre uscivo dall'ospedale Sacco di Milano, sentivo quel liquido denso muoversi. Ho avuto un po' di dolore, ma meno di quanto mi aspettassi. Giovedì ho ripreso a fare yoga».
Quando ha saputo del cambio di terapia?
«La prospettiva era nata prima del Covid. Poi la pandemia ha rallentato tutto. Lo so: c'è chi mi rimprovera di essere stato troppo apprensivo sul rispetto dell'orario della pastiglia. Ma mi è capitato di essere a cena fuori, la sveglia del telefono suonava e non ci avevano ancora portato nulla da mangiare, io la spegnevo, me ne dimenticavo, e la mattina dopo mi svegliavo di colpo con quel pensiero in testa...».
Quanta ansia.
«Ansia e senso di colpa. Mercoledì sono uscito dall'ospedale felice, medici fantastici, un servizio che te lo immagini da sanità privata».
IL POST INSTAGRAM DI JONATHAN BAZZI SULLA NUOVA TERAPIA CONTRO L HIV
Esperienze spiacevoli in questi anni ce ne sono state?
«Quattro anni fa ho scoperto di avere il papilloma virus: devo fare l'anoscopia e il pap test annualmente. Prima c'era una dottoressa silenziosa, per nulla comunicativa, brusca: niente anestetico, nessun dilatatore preventivo. Ora ho un nuovo dottore, con al fianco una specializzanda. "Ma avete usato l'anestetico?", ho chiesto perché non ho sentito nulla. E il medico: "Sì, certo". Ho raccontato che la dottoressa di prima non l'usava e la specializzanda inorridita: "Ma questa è crudeltà!"».
Ora potrà quasi dimenticarsi di essere sieropositivo.
«Non è un problema ricordarmi che ho l'Hiv. È una situazione che mi impone di tenere sotto controllo il virus, ma non mi sento malato, non mi interessa non pensarci, molte delle cose che ho scritto vanno proprio nella direzione opposta».
Nel suo post ha detto di avere un'ossessione per le migliaia di giovanissime vittime dell'Aids.
«Mi ossessiona come la morte si sia intrecciata a quelle che, in molti casi, erano le prime esperienze sentimentali, sessuali: sono stati traditi dalle cose più belle».
Si sente un sopravvissuto?
«Se penso a cosa accadeva negli anni Novanta, quando sono arrivati gli antiretrovirali, non posso che dirmi fortunato: siamo passati dai tentativi devastanti con l'Azt, ai cocktail quotidiani di 15/20 pastiglie, alle due iniezioni ogni due mesi di oggi (si sta lavorando perché siano due ogni 6 mesi)».
Ha raccontato di essersi vergognato di tante cose nella vita (quando la riaccompagnavano a casa si faceva lasciare lontano dalle case popolari in cui abitava...). Della sieropositività mai.
«Tirare fuori la pastiglia, a cena con altre persone, lo vivevo come un gesto violento: sentivo di riflesso il loro disagio. Ma non ho problemi a dirmi sieropositivo, plasma un po' la mia vita, ma l'aspetto simbolico, emotivo, estetico-narrativo legato alla malattia non mi interessa. Ho scritto Febbre proprio per raccontare una storia diversa».
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