Estratto dell’articolo di Nina Fabrizio per “il Giorno”
«La pista amical-familiare è statisticamente la più diffusa ma è l’unica che in questo caso non si è voluta prendere in considerazione». A parlare è Pino Nicotri, giornalista che al caso di Emanuela Orlandi ha dedicato ben 4 volumi e le cui indagini e valutazioni sono divenute ora anche una testimonianza raccolta dal promotore di giustizia vaticano, Alessandro Diddi, titolare dell’inchiesta vaticana voluta da papa Francesco a 40 anni di distanza dalla scomparsa della ragazza. ’Emanuela Orlandi, il rapimento che non c’è’ è il titolo del suo ultimo volume e già dice molto della pista accreditata da Nicotri.
pino nicotri emanuela orlandi il rapimento che non c'e'
Ne avete parlato con Diddi?
«Con Diddi […] non abbiamo parlato della cosiddetta pista dello zio, cioè riconducibile a Mario Meneguzzi, ma di altre ipotesi. Ad esempio quella legata alla partecipazione di Emanuela a un programma televisivo».
Ci dica di più.
«Un mesetto prima di sparire Emanuela aveva partecipato alla trasmissione Tandem sulla Rai e io ho notato che era in prima fila, inquadrata spesso, è possibile che qualcuno della troupe avesse notato questa ragazza e la facesse inquadrare con una certa insistenza, da lì potrebbe essere nato qualche rapporto di conoscenza ma la cosa non è mai stata indagata. È importante invece perché ricostruendo anche le varie fasi del giorno della scomparsa il 22 giugno 1983, appare più plausibile che lei, su Corso Rinascimento, dopo aver perso l’autobus, si fosse fermata a parlare con qualcuno che conosceva».
Quindi non un sequestro?
«Io non credo. […] Forse […] ha seguito qualcuno».
Ipotesi che le sono valse anche una certa ostilità della famiglia.
«Io non ho mai insinuato nulla sulla moralità di Emanuela. […] Per esempio a scuola scrive un tema in cui parla degli amici che ti mollano. Spesso marinava la scuola. Forse Emanuela aveva un problema, un qualche problema che non la faceva stare bene».
MARIO MENEGUZZI - ZIO DI EMANUELA ORLANDI
Ma perché allora non indagare nel contesto a lei vicino?
«In realtà è quello che fece subito la titolare dell’inchiesta, la magistrata Margherita Gerunda, che seguì l’ipotesi dell’omicidio dopo una violenza ma fu spostata dalle indagini il 18 luglio. Lei mi disse che erano sempre stati convinti che fosse un normale caso di violenza sessuale e che però era una cosa molto brutta da dire alla famiglia così si prendevano in considerazione anche altre ipotesi. Mi disse anche che non vedeva di buon occhio lo zio Meneguzzi perché era troppo protagonista, sembrava volesse sapere come andavano le indagini. Anche il magistrato successivo Sica sospettava di lui, lo faceva pedinare».
Proprio in questi giorni però è uscita un’intervista a un ex poliziotto che scagiona Meneguzzi.
«Anche qui molte stranezze. Io credo che il poliziotto anonimo sia Pasquale Viglione che dopo la pensione si mise a lavorare pagato per Chi l’ha visto».
Poi che successe?
«Ci fu un primo errore, privilegiare la pista bulgara legata ad Alì Agcà. Ha tenuto banco per anni, faceva comodo, c’era la guerra fredda e serviva a scatenare sdegno contro l’Unione Sovietica».
[…] Che cosa può essere successo?
«Quando ci sono casi di abusi finiti male, soprattutto quando vittima e carnefice si conoscono, ci sono due motivi per cui si tenta di occultare tutto. Il primo naturalmente è che non si vuole essere scoperti».
Il secondo?
«La vergogna perché hai abusato di una fiducia, ad esempio della fiducia della famiglia Orlandi, perciò si fa sparire il corpo, come fu ad esempio il caso di Wilma Montesi ritrovata sulla spiaggia di Torvajanica. Poi venne fuori che era coinvolto il figlio di un esponente di primo piano della Dc».
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