“NON È MAI STATA LA REGOLAZIONE PUBBLICA A SALVARE L'ITALIA. SONO STATI GLI ITALIANI, ALLA FINE L'ITALIA NON HA MAI TRADITO” – L’INTERVISTA DI ALDO CAZZULLO A GIUSEPPE DE RITA: “GLI ANNI '70 DOMINATA DALLA VOGLIA DI ESSERCI, DI VIVERE. LA VEDEVI OVUNQUE, QUELLA VOGLIA DI FARCELA: ESPLOSE LA PICCOLA INDUSTRIA, L'ECONOMIA SOMMERSA – “DOV' È FINITA? C'È ANCORA. PENSI A COME ABBIAMO SUPERATO LA CRISI DEL 2001 E QUELLA DEL 2008, L'11 SETTEMBRE E LA LEHMAN BROTHERS. NON AVREMO PIÙ L'ESPLOSIVITÀ; EPPURE..."

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Aldo Cazzullo per il “Corriere della Sera”

 

giuseppe de rita foto di bacco giuseppe de rita foto di bacco

Professor De Rita, qual è il suo primo ricordo?

«10 giugno 1940: la dichiarazione di guerra. Ero ai giardinetti di San Giovanni con mia madre. Le signore romane erano spaventate: avevano capito come sarebbe finita».

 

Che ricordo ha del fascismo?

«Studiavo al Massimo, dai gesuiti, e questo mi evitò il sabato fascista e il passo dell'oca. Dagli altoparlanti della scuola arrivavano Giovinezza e la marcia reale, ma a me piacevano i Puritani di Bellini: "Quando la tromba squilla/ ratto il guerrier si desta/ l'arme tremende appresta/ alla vittoria va!».

giuseppe de rita giuseppe de rita

 

Poi la guerra arrivò davvero.

«Con mia madre e mio fratello Massimo sfollai a Frosolone, in Molise. Guardavamo ammirati i tedeschi: ne bastarono due, con una mitragliatrice, per tenere in scacco gli americani per una settimana. Sparavano come diavoli dalla piazza del Comune, poi si spostavano velocissimi in piazza del Duomo e ricominciavano il tiro... Gli Alleati non osavano avvicinarsi e continuavano a bombardare. Dovettero andare il parroco e il podestà a dirgli che potevano smettere: i tedeschi se n'erano andati».

 

Gli americani com' erano?

«A dire il vero, prima entrarono i neozelandesi, con la mimetica e il fogliame in testa. Poi i polacchi. Mio fratello divenne il responsabile della mensa. Erano generosi, spartivano il cioccolato con noi. Ci segnammo i loro nomi. Li abbiamo ritrovati tutti nel cimitero polacco di Montecassino».

Dove i soldati polacchi diedero «il corpo all'Italia, l'anima a Dio, il cuore alla Polonia».

 

«Presa Montecassino, la via di Roma era aperta. Mio padre saltò in bicicletta e partì per Frosolone, per vedere se sua moglie e i suoi figli erano ancora vivi. Ci mise tre giorni, lungo la Casilina, pedalando contromano rispetto alle jeep della Quinta Armata che salivano verso Roma. Arrivò tutto pesto per le botte degli americani, che si aprivano la strada a manganellate».

 

Lei come conobbe sua moglie?

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«Era l'autunno nel 1951, avevo 19 anni, e mi iscrissi a un corso di educazione civica nel castello di Sermoneta, ospite dalla principessa Margherita Caetani, gran donna. Il direttore si chiamava come il primo re di Atene: Cecrope.Cecrope Barilli. Si parlava di psicanalisi, di libido, di liberazione. Si alzò una mia coetanea, Maria Luisa: "Io sono terziaria francescana, queste cose non le posso accettare!". Sarebbe diventata mia moglie».

 

Avete avuto otto figli.

«Ne volevamo dodici, come le tribù di Israele. Prima arrivò Betta, poi Giorgio. Quando lei rimase incinta di Giulio, convocammo i genitori per il lieto annuncio. Ci fu il gelo: "Siete matti?!". Mio padre poi era furibondo. Avevo appena fondato il Censis, temeva che non avrei potuto sfamare la famiglia».

 

Invece?

«Dieci mesi dopo nacque Andrea. Altre sfuriate. Mia suocera mi trattò da stupratore seriale: "Non hai rispetto per Maria Luisa!". Decidemmo di cambiare tattica. A ogni gravidanza mandavamo un telegramma: "Se ieri eravamo in quattro a fare Mapin Mapon, domani saremo in cinque a fare Mapin Mapon...". Così arrivarono Lorenzo, Cecilia, Daniele, Alessandro».

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Sua moglie non c'è più.

«Dopo l'ultimo parto la sua ginecologa, Sandra Scassellati, moglie del mio amico Ubaldo, mi disse: "Peppe ora basta, altrimenti si consumerà". Forse otto gravidanze l'hanno consumata. Comunque aveva 82 anni».

 

Come ricorda l'Italia della ricostruzione?

«Dominata dal conatus essendi: la voglia di esserci, di vivere. La vedevi ovunque, quella voglia di farcela: nel modo in cui la gente rifaceva la casa, il laboratorio, l'azienda».

 

Si sapeva che nel 1948 avrebbe vinto la Dc?

«Nessuno sapeva nulla. La Dc vinse grazie alla paura; e Togliatti commise un grave errore, rinfocolando la paura con una campagna aggressiva. Montini, che era il vero capo della Dc...».

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Cossiga mi disse la stessa cosa: Montini per lui era il fondatore e il segretario-ombra della Democrazia cristiana.

«...Cossiga certe cose le sapeva. Montini era già stato in America, a preparare il terreno per la prima missione dell'Italia libera. E in America nel 1944 il governo mandò i massoni - Raffaele Mattioli, Enrico Cuccia, Quinto Quintieri... -, per trovare un'intesa con i loro confratelli. La Dc ricostruì il Paese in continuità con parte del fascismo e della massoneria. L'uomochiave è Alberto Beneduce: ha fatto l'Iri, l'Inps, l'Imi, l'Opera maternità e infanzia, la legge bancaria...».

 

Pensavo Fanfani: l'Autostrada del Sole, il Piano casa, la Rai, la scuola media unica, la nazionalizzazione dell'energia elettrica...

«Sì, ma il vero potere l'avevano gli uomini di Beneduce. A cominciare da suo genero, appunto Cuccia, e da Mattioli. E poi Menichella, Giordani, Ortona, Carli... Tra tutti, gli americani avevano scelto come interlocutore principale Mattioli».

 

Lo conobbe?

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«Una volta a colazione, in piazza del Collegio Romano, con Piero Sraffa, l'amico di Gramsci, e Claudio Napoleoni. Quando spararono a Togliatti, fu Mattioli ad andare al suo capezzale a dire ai capi comunisti: non provate a fare la rivoluzione, perché gli americani saranno crudeli».

 

Lei sta scrivendo la prefazione alle lettere di Andreotti alla moglie, che saranno pubblicate da Solferino.

«La moglie andava al mare con i ragazzi, e lui si trasferiva alle catacombe di Priscilla, in un convento di clausura».

 

Clausura?

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«Era il posto perfetto: le suore non facevano entrare seccatori, preparavano da mangiare anche a notte alta, e c'era la messa ogni mattina. Bellissime anche le recensioni andreottiane dei ristoranti».

 

Recensioni?

«Cose tipo "buone le fettuccine del Pastarellaro", "al Passetto non vado più, troppo caro". Usciva sempre con gli stessi tre amici, tra cui un giornalista del Popolo, perché erano gli unici romani che non gli chiedevano mai nulla. E poi domandava alla moglie il permesso per esercitare la sua vera passione».

 

Quale?

«Giocare ai cavalli. Scriveva: "Grazie cara Livia per l'autorizzazione: la considero un segno di fiducia, e la userò poco". Di cavalli era un vero esperto. Giocava poco, duemila lire; ma una volta ne vinse clamorosamente 35 mila».

Giuseppe De Rita Giuseppe De Rita

 

Professor De Rita, qual è stato il suo Papa prediletto?

«Giovanni XXIII. Finalmente un uomo normale, dopo un Pacelli così rigido, ieratico. Ho stimato moltissimo Montini, ma dopo tre udienze capii che mancava l'empatia. Empatia che ho ritrovato solo con Ratzinger: questione di meccanismi intellettuali».

 

E Francesco?

«La sua relazione alla conferenza latinoamericana di Aparecida, nel 2007, è meravigliosa: la Chiesa né piramidale né rotonda ma sghemba; la periferia più importante del centro, il processo del luogo... Poi mi ha deluso. Ma mi rendo conto che una cosa è fare il Papa, un'altra coordinare la conferenza di Aparecida».

 

Qual è stato il periodo più bello della sua vita?

«Gli anni '70. Molti dicono: gli anni di piombo, l'autunno della Repubblica... In realtà fu un grande periodo di conatus essendi. Voglia di continuare a vivere, a fare azienda, a fare soldi. Esplose la piccola industria, l'economia sommersa...».

 

Il nero.

Giuseppe De Rita Giuseppe De Rita

«Sì, c'era anche quello: "Me ne frego delle regole, dell'inquinamento...". Ma c'era soprattutto la voglia di competere, anche tra campanili. La ceramica a Sassuolo, l'elettrodomestico a Fabriano, le scarpe da montagna a Montebelluna, il gioiello a Valenza Po...».

 

Lei inventò il «piccolo è bello».

«All'epoca avevo paura di volare; così passavo almeno cento notti l'anno in vagone letto.

Andai dappertutto. A Prato nel 1969 scoprii un mondo. Tutti avevano almeno due mestieri. Il conducente dell'autobus pubblico lavorava dalle 8 alle 14, poi andava a Livorno con la giardinetta a ritirare le balle di stracci sbarcate dall'America, le riportava a Prato dove venivano lavate nel Bisenzio - inquinamento mostruoso -, quindi riciclate nelle piccole fabbriche. Mi portavano nei sottoscala a vedere i telai, azionati ogni ora dai vari membri della famiglia: ognuno aveva la sua sveglia. Evasione fiscale totale. Contributi, questi sconosciuti».

 

Giuseppe De Rita Giuseppe De Rita

Non si fa.

«Certo che no. Ma questa è la gente che ha fatto l'Italia. Toccavi con mano la voglia di vivere e di guadagnare, la volontà di potenza. A Fiesole c'era stata la mostra di Moore: il maestro venne a riprendersi le opere; ci fu una riunione da osteria per decidere se comprare una statua. Per fortuna la comprarono. Poi sono arrivati i cinesi, a Prato è cambiato tutto; però Moore è sempre là, in piazza San Marco».

 

È un fatto generazionale?

«No. Diffido di quelli che ragionano in termini di generazione. Noi, nati negli anni 30, dovevamo essere spazzati via da un'infinità di generazioni e di gruppi: dai sessantottini e dai grillini, dai terroristi e dai rottamatori, dai boomer e da quelli della new Economy. Invece siamo ancora qui».

 

Dov' è finito il conatus essendi?

«C'è ancora. Pensi a come abbiamo superato la crisi del 2001 e quella del 2008, l'11 settembre e la Lehman Brothers. Non avremo più l'esplosività della ricostruzione e degli anni '70; eppure ce l'abbiamo fatta. Con il ritorno ai borghi, il policentrismo, il soggettivismo dei singoli...».

 

Giuseppe De Rita Giuseppe De Rita

Come vede l'Italia dei prossimi anni?

«Sarà decisivo quest' autunno».

 

Per le elezioni? Per il Pnrr?

«Ma no. Non è mai stata la regolazione pubblica a salvare l'Italia. Sono stati gli italiani, con le loro strappate viscerali. Conta lo struggle for life, la battaglia per la vita; e alla fine l'Italia non ha mai tradito. Certo, per strappartele, le viscere le devi avere. Io l'ho fatto una volta sola: quando Saraceno mi licenziò con 14 collaboratori dalla Svimez, e creai il Censis. Non avevo un mecenate, per vivere facevo 50 o 60 ricerche all'anno...».

 

Giuseppe De Rita Giuseppe De Rita

E ora al suo posto ha messo suo figlio Giorgio. Le hanno dato del familista.

«Giorgio è cresciuto con me, poi è stato capoazienda di Nomisma con Prodi, si è occupato di digitalizzazione con Brunetta. Aveva il profilo giusto». 

 

Qual è il segreto della longevità? Mangiare poco? 

«No. Vivere bene le cose belle. Come la casa di Assisi, dove sento mia moglie ancora viva. O come i supplì. Spesso la domenica sera, quando avevo tutti i figli per casa, cenavamo in piedi, a base di supplì...». 

 

Lei ha fede?

 «Dai gesuiti il mio confessore, padre Bellemi, mi raccomandava di pregare con fervore. Oggi "fervore" è una parola che fa ridere. Ma io ho imparato a pregare così la sera, senza intellettualismi, parlando direttamente con Dio. Anche se poi ho conosciuto i rosminiani, che invece puntavano tutto sul legame tra fede e ragione: uno dei due grandi punti del papato di Ratzinger». 

 

Qual è l'altro? 

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«Il legame tra teologia e storia. La Trinità coincide con i tre grandi periodi della storia umana. Il Padre onnipotente della Bibbia rappresenta l'era del potere assoluto. Il Figlio misericordioso del Vangelo rappresenta l'era dell'amore per l'altro, ma anche della sua negazione, della guerra, dei massacri ideologici. Un tempo che non è ancora finito. Poi verrà la terza era: quella dello Spirito Santo». 

 

E come sarà? 

«Non lo sa nessuno. Lo Spirito soffia dove vuole. Sulla mia lapide vorrei un passo del Salmo 84: "Lo Spirito mi porta avanti, di passo in passo, con vigore sempre crescente, fino a comparire davanti a Dio in Sion"». 

 

Come vorrebbe morire? 

«Da vigoroso, non da stracciato». 

 

Come immagina l'aldilà? 

«Mi affido al Padre. Sono una sua creatura. Secondo il Talmud, l'oltretomba è una Scola, dove ci si interroga su tutto. In questi novant' anni non ho fatto altro: interrogarmi su tutto. Tra poco, speriamo non pochissimo, Dio mi darà le risposte».

 

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