Fulvio Fiano per il “Corriere della sera”
La vita di Deborah Sciacquatori non è mai stata diversa da così: «Papà ci ha sempre picchiato. Facevo gli incubi e temevo che ci uccidesse nel sonno. L' unica cosa che mi ha lasciato è la passione per la boxe e il ricordo di quando, avevo tra i sei e gli otto anni, mi portava con lui in palestra». Chiusa in camera a studiare la 19enne non ne parlava con le amiche o con il centro di ascolto a scuola. Rassegnata, quasi. «Il futuro per noi non esisteva più e per questo non siamo neanche più andate al pronto soccorso o a denunciarlo».
Il giorno in cui decide di ribellarsi a quasi 20 anni di violenze subite in prima persona o a cui ha assistito impotente, c' è un gesto che fra tanti colpi, soprusi e insulti fa scattare in lei qualcosa. L'aggressione quotidiana di Lorenzo, suo padre, alla mamma Antonia comincia alle 5. Due ore dopo l'uomo manda la moglie a comprare due birre e dopo la pausa riprende. Pugni al volto, spintoni, minacce. Poi le stringe l'avambraccio attorno al collo, un segnale che la 19enne sa riconoscere e che significa, anche in quel terribile campionario, il superamento di una soglia ancora più pericolosa.
È allora che Deborah prende uno dei coltelli della collezione del nonno e lo punta alla nuca del genitore: «Papà, lasciala andare!». Lui è appoggiato alla parete dell' androne dove ha raggiunto la moglie in fuga. La ragazza è aggrappata a loro e sferra pugni per fargli mollare la presa. Poi un movimento, un urto e il coltello ferisce il 41enne. Antonia è libera, il marito cade a terra. Deborah capisce subito che è grave. Solo l'autopsia dirà se è morto per quella ferita, ma intanto lei torna dentro casa, prende del ghiaccio, prova a rianimare il padre: «Non volevo, perdonami, ti voglio bene! Oddio mamma che ho fatto!».
Poi non ricorda più nulla. Le circostanze, raccontate tra i singhiozzi, quell'urlo udito dai vicini «Papà non mi lasciare!» quando vede il genitore a terra in fin di vita, sono gli elementi in base ai quali la Procura di Tivoli decide di derubricare l'accusa di omicidio, ipotizzata a caldo come atto dovuto, nel più lieve eccesso di legittima difesa e ordina la liberazione della ragazza (era agli arresti domiciliari a casa di una zia) già ieri mattina. In via Aldo Moro a Monterotondo, affacciati alle finestre delle case popolari con i muri grigi scrostati, in tanti ora si dicono felici per lei, spiegano che è giusto così.
Il procuratore Francesco Menditto annuncia che presto chiederà l'archiviazione del caso e sottolinea però che quelle stesse persone tante volte hanno sentito le urla e non si sono mai volute impicciare perché «sono cose di famiglia». «E invece - dice il magistrato - aggressore e vittima non erano sullo stesso piano, c'era una sottomissione della donna all'uomo violento».
La mamma di Deborah, Antonia, descrive un'esistenza fatta di paura e violenza: «Le cose sono peggiorate nel 2002 quando Lorenzo ha perso suo padre. La nostra vita era un inferno, mia figlia viveva nel terrore e cenava in camera pur di non vederlo. Ancora mi fanno venire il mal di schiena i pugni che lui mi ha dato mentre la allattavo, ma io preferivo che se la prendesse con me, pensavo di salvarlo e recuperare la situazione. Non volevo rovinarlo e poi temevo che mi levassero Deborah perché non ero una buona madre». Nella ricostruzione di quell' inferno fatta dai carabinieri rimaneva un ultimo buco di quattro anni.
L'uomo violento che tutti i giorni picchiava le donne di casa nel marzo 2015 esce dal carcere in cui ha trascorso pochi mesi per i maltrattamenti e le denunce per rissa, rapina e resistenza a pubblico ufficiale. Un «vuoto» sul quale gli investigatori si interrogano, dato il soggetto in questione (servizi sociali e Tso nel suo passato, famiglia rifugiata in Abruzzo per un periodo), ma che solo Deborah riesce a spiegare con quella rassegnazione a cui infine si è ribellata: «Dopo il carcere papà era cambiato, beveva meno, ci trattava meglio. Ma è durato poco. Ha ripreso a picchiarci, al punto che mamma faceva sparire ogni oggetto pericoloso da casa per paura che ce lo lanciasse contro. Lui la chiamava "put...", le diceva "ti sgozzo come un maiale", ogni pretesto era buono per colpirla. La cena, i soldi, la casa in disordine. E la obbligava ad avere rapporti che lei accettava per paura del peggio. Il mio unico rifugio è stato lo studio, volevo darmi una speranza».
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