Alessandro Da Rold per “la Verità”
Dopo l'assoluzione di Eni e dell' amministratore delegato Claudio Descalzi nel processo sul giacimento nigeriano Opl 245, c'è attesa per l' appello di martedì 13 dove si deciderà per una nuova assoluzione o la conferma di condanna a carico di Gianluca Di Nardo e Emeka Obi, i due presunti intermediari della tangente da 1,1 miliardi di dollari. I due avevano scelto il rito abbreviato e sono stati condannati in primo grado nel settembre del 2018.
Quella sentenza aveva rafforzato le tesi dell'accusa che aveva indagato il cane a sei zampe e Shell per corruzione internazionale, insieme con Descalzi e l' ex presidente Paolo Scaroni. Ora la situazione si è ribaltata. Se il 17 marzo, nel filone principale, gli imputati sono stati assolti perché «il fatto non sussiste», allo stesso tempo la Procura generale che doveva aprire il secondo grado su Di Nardo e Obi ha completamente smontato le tesi dei pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro.
Lo si può leggere nella requisitoria di 25 pagine, dove non viene solo evidenziato «l'enorme dispiego e spreco di risorse» da parte della Procura diretta da Francesco Greco, ma vengono contestati anche i tipi di reati contestati dall' accusa, come la posizione della Nigeria o la stessa testimonianza dell' imputato/accusatore Vincenzo Armanna. Quest'ultimo «non è un fantasioso ballista, ma un avvelenatore di pozzi bugiardo». L'ex responsabile Eni nell'Africa subsahariana, quello che avrebbe visto le mazzette, «mescola verità e bugie» ed «è totalmente inaffidabile».
Il Procuratore generale Celestina Gravina, ha nella sua requisitoria spiegato più volte che «non esiste il fatto contestato, non esiste in natura. Non esiste e ne abbiamo la prova». Per Gravina la condanna in primo grado era «gravata da un travisamento gravissimo dei fatti» in particolare sulla posizione di Obi, imputato centrale in tutta la vicenda. Per la Procura generale di Milano, insomma, «la lettura degli atti è stata distorta totalmente».
E il reato «non esiste perché per altro verso la sentenza si basa su una serie di assunti indimostrati soprattutto per ciò che attiene alla vicende» legate «alla storia della titolarità di questa licenza petrolifera in capo alla società nigeriana Malabu». Secondo Gravina, infatti, quando detto dai pubblici ministeri dovrebbe essere totalmente ribaltato.
Per quale motivo? Per il Procuratore generale «sono stati assunti superficialmente dei fatti privi di prova fondati sul chiacchericcio, sulla maldicenza, su elementi che mai sono stati valorizzati in alcun processo penale». Nella sentenza, in sostanza, non sono stati lette con dovizia di particolari le vicende nigeriane ancora oscure, sono stati fatti errori da matita «blu» di diritto amministrativo, tanto da intravedere uno sproloquio «inseguendo una impostazione di tipo ideologico».
Gravina se la prende anche con le denunce delle Ong, perché il pubblico ministero avrebbe sposato «l' idealità o l' ideologia avanzata da queste strutture che hanno le loro logiche, imponendola in una «fattispecie processuale, un' accusa che deve rispondere ad altri criteri di solidificazione del racconto e della prova del racconto».
L'obiettivo sarebbe stato «quello di assemblare pezzi di episodi di storie diverse in modo che ne» uscisse «una suggestione negativa insuperabile, una stigmatizzazione moralistica». Per la pg, in pratica, se di reato si deve parlare sarebbe quello di appropriazione indebita o semmai di false fatturazioni.
Ma le stilettate contro i pubblici ministeri non si fermano qui. Gravina contesta soprattutto le diverse dichiarazioni rilasciate da Armanna a processo. Nel quarto interrogatorio del 27 aprile 2016, proprio l'ex manager Eni si sarebbe inventato l' incontro tra Descalzi, il presidente della Repubblica della Nigeria Goodluck Jonathan e Abubakar, dove si sarebbe parlato di Obi. Descalzi che ha spiegato che «lui non c' era in Nigeria nei mesi di maggio e giugno quando ci sarebbero stati questi incontri». Per la Procura generale, «l' argomento» non è stato «approfondito in alcun modo dal pubblico ministero» dal momento che poteva essere «verificato in fatto».
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