Francesco Borgonovo per “la Verità”
«Alcuni rom sono italiani, ma uguali a noi non è il termine più giusto», dice Simone, romano di Casal Bruciato, durante la puntata di Piazzapulita. Il pubblico si scioglie in un applauso, e il conduttore Corrado Formigli non se ne fa una ragione. Prima, durante la diretta, rimprovera i presenti in studio. Poi ribadisce la sua indignazione su Twitter: «L'applauso sul fatto che un rom non è uguale a noi, anche se è cittadino italiano, mi fa paura», scrive. «Cosa sta succedendo? E quanto è pericoloso alimentare questo tipo di pensiero? Non si può applaudire qualcuno che certifica che due esseri umani non sono uguali».
Il fatto, però, è che c' è poco da sconvolgersi. Formigli, in trasmissione, ha posto una domanda diretta («Se i rom hanno la cittadinanza italiana sono uguali a te o no?») che richiede una risposta diretta. Una risposta brutale, se volete, ma vera. No, purtroppo i rom non sono uguali a tutti gli altri. Se hanno la cittadinanza, ovviamente, sono italiani. Ma, proprio come ha detto con semplicità Simone, «uguali non è il termine più corretto».
Attenti: qui il razzismo non c' entra proprio nulla. A certificare la diversità è, tra gli altri, l'Unione europea, che considera i rom «la principale minoranza in Europa». Anzi, è lo stesso popolo romanì a ritenersi diverso. Non per nulla, chi non appartiene alla comunità viene chiamato «gagè», termine che indica la non appartenenza alla «dimensione romanì». Come ha spiegato lo storico Leonardo Piasere, «i gagé sono gli altri per definizione». Il problema sta tutto qui.
Si può parlare fino allo sfinimento di «integrazione» e di «uguaglianza», ma è evidente che una minoranza etnica, in quanto tale, tenderà a percepirsi come diversa dagli altri cittadini, e a rivendicare la sua particolare identità. Proprio a tutelare questa identità servono le numerose misure che l'Ue, nel corso degli anni, ha adottato nei confronti della popolazione romanì. Ed è sempre per questioni identitarie che, in Italia, è così difficile risolvere l'enorme disastro rappresentato dai campi rom.
Intendiamoci: non c'è niente di male a voler proteggere la propria cultura. Di più: è fondamentale che ogni popolo possa far valere il proprio carattere e possa preservare la propria anima. Santino Spinelli, intellettuale e musicista rom, ha dichiarato in un'intervista qualche tempo fa: «Io sono orgogliosissimo di essere rom poiché appartengo ad un'etnia che è depositaria di una storia, di una lingua, di una cultura, di una letteratura, di un' arte, di una gastronomia, di una ricchezza di tradizioni, di racconti e di proverbi che sono un patrimonio per l'intera umanità. Il mondo culturale e artistico romanò va conosciuto per essere apprezzato».
Parlando appunto di questo «mondo culturale», Spinelli ha spiegato che si tratta di «una nazione senza Stato e senza territorio. I confini di questa nazione sono delineati dalla diffusione stessa, in tutti i continenti, delle comunità romanes con il loro bagaglio linguistico e culturale». Dunque sì, «i rom non sono uguali a noi». Loro stessi si definiscono «nazione». E, chiaramente, questa nazione non è esattamente la stessa a cui fanno riferimento gli altri italiani. Come dicevamo, hanno tutto il diritto di proteggere la loro originalità, e non vanno certo discriminati in virtù della loro appartenenza.
Non vanno giustificati e non si dovrebbero ripetere episodi come quello avvenuto a Napoli, dove sette bambini e due donne rom sono stati presi a sputi e insultati all' uscita di un cinema (dove li avevano accompagnati due operatrici di una cooperativa sociale) da una banda di ragazzini. Come spesso avviene quando si parla di minoranze, tuttavia, la giusta difesa di una identità si trasforma facilmente in vittimismo.
La nostra società è ossessionata dai diritti (o presunti tali) dei gruppi minoritari, che sono sempre descritti - a prescindere - come vittime di persecuzione e di razzismo. Per timore di urtarne la sensibilità e di passare per cattivi, succede che alle minoranze si riservino trattamenti di favore. Ecco perché anche gli italiani «non si sentono uguali ai rom».
Se questa uguaglianza ci fosse, chi esce da un campo rom o da un centro di accoglienza non otterrebbe 18 punti utili a scalare la graduatoria delle case popolari, come accaduto a Casal Bruciato. Se l' uguaglianza ci fosse, non sarebbe tollerata l' illegalità costante in cui almeno 26.000 rom vivono nelle varie baraccopoli più o meno riconosciute dalle istituzioni.
Non esisterebbero le varie forme di assistenzialismo che lo Stato, i Comuni, le Regioni e la Ue garantiscono alle varie comunità romanes. Non sono molti (per usare un eufemismo) gli italiani che vivono in campi a spese della collettività e pretendono, per uscirne, affitti agevolati, magari un lavoro o altri aiuti economici. Dunque no, non siamo uguali. E finché i piagnistei e l' indignazione pelosa continueranno a esistere, non lo saremo mai.