Giuseppe Salvaggiulo per "la Stampa"
«La verità è che un processo che dura da tredici anni non ti permette più né emozioni né speranze. Lo si fa e basta, per spirito di abnegazione e impegno, oltre che per rispetto del mio avvocato Antonio Nobile e del pubblico ministero Alberto Galanti. Ero lì per questo, e per non arretrare di un passo davanti ai boss».
Roberto Saviano ragiona il giorno dopo la condanna del boss Francesco Bidognetti e dell' avvocato Michele Santonastaso, per minaccia aggravata dal metodo mafioso, attuata con il proclama pronunciato contro di lui e la giornalista del Mattino Rosaria Capacchione il 13 marzo 2008, al culmine del processo Spartacus a 115 membri del clan camorristico dei casalesi. Un evento senza precedenti nella storia giudiziaria italiana.
Accadeva in un' aula di tribunale, nella fetta di Campania dove i casalesi dettavano legge. E lunedì, in un' aula del tribunale di Roma, a tredici anni e duecento chilometri di distanza, Saviano ha ascoltato in aula la lettura della sentenza di primo grado che gli ha reso giustizia come parte civile.
Qual è il sentimento più forte che hai provato durante la lettura della sentenza?
«Empatia con il mio avvocato che si è commosso, mostrando un bene che è così raro in uno spazio tecnico e feroce come quello della giustizia. Le sue lacrime sono state per me un dono prezioso in una lotta lunghissima».
Pensi di aver ottenuto la giustizia che cercavi? Ora ti senti, in qualche modo, vincitore?
«Non mi sento vincitore, perché sono a pezzi. Con una vita costretta, maciullata, non ci può essere nessuna vittoria. Ma è una sentenza epocale».
Perché?
«Per la prima volta una sentenza ha scritto che un boss ha utilizzato un suo avvocato per pronunciare una minaccia alla parola, leggendo in un tribunale, nel corso di un processo, un documento che dietro l' apparenza di un' istanza di trasferimento per legittima suspicione diceva: se condannate tutti i boss del clan dei casalesi, questi due sono i responsabili. In sostanza mi attribuivano la colpa di aver costruito mediaticamente il problema camorra. Un' accusa che, per la verità, non mi fanno soltanto i mafiosi».
Per molti, questa vicenda che all' epoca fece scalpore e suscitò indignazione, a distanza di tempo era dimenticata. Tredici anni per una sentenza: che cosa vuol dire per te che ne eri protagonista, in quanto vittima, una giustizia così lenta?
«È una giustizia che i clan conoscono bene. Sanno perfettamente che quando commettono i loro reati, omicidi compresi, saranno chiamati a risponderne a distanza di anni, se non di decenni.
Quando saranno morti o comunque alla fine del loro mandato criminale, e in questo caso aspetteranno ancora la sentenza definitiva e a quel punto, pentendosi, potranno persino trarne benefici giudiziari. Una giustizia lenta significa permettere alle organizzazioni criminali di contare su una sostanziale impunità, anche in caso di condanna».
Dall' uscita di Gomorra sono passati quindici anni. Ti senti cambiato?
«Profondamente, e non credo in meglio. Sento più diffidenza, più rancore. Mi sento schiacciato dal peso inesorabile che comporta vivere in queste condizioni e sotto queste pressioni».
Come resisti?
«Ho assunto, credo, gli strumenti di una certa saggezza. Conoscere le dinamiche di potere mi ha spesso profondamente depresso, ma allo stesso tempo mi sono reso conto che le tracce di vita che mi avevano sempre nutrito - la conoscenza, lo studio, i libri - proprio come all' origine della mia formazione, così adesso, sono la mia salvezza. In questo sono rimasto identico».
La percezione della camorra nell' opinione pubblica è cambiata da allora?
«Sì, come se ormai la camorra fosse considerata problema risolto. È giusto non considerarla un' emergenza, perché si tratta di un potere costante e permanente della società italiana, ma ormai è percepita come fisiologica. Nell' opinione pubblica non sento più la spinta di allora, forse perché il sangue si è decisamente ridotto».
La camorra è meno sanguinaria?
«Gli omicidi ci sono sempre, la camorra continua a essere l' organizzazione criminale più sanguinaria d' occidente. Però si è ridotto il volume di sangue rispetto agli anni precedenti, e tanto basta. La percezione nazionale è che si spara meno, quindi si tratta di un problema delegabile alla polizia, come un' ombra che si è allontana. Un errore, ovviamente, perché probabilmente mai come oggi sono forti le organizzazioni criminali».
Ripensando a questi quindici anni, qual è la cosa che più ti ha sorpreso, se non stupito?
«Domanda difficile. In positivo la costanza di chi mi ha seguito, le migliaia di persone che sono state intorno alle mie parole, alla mia battaglia, alla scelta di raccontare. Continua a stupirmi, questo calore nutrito di voglia di conoscenza».
E in negativo? Che cosa o chi ti ha deluso di più?
«Le cose che più mi hanno deluso sono infinite».
L' ultima?
«Che l' altro ieri, alla lettura della sentenza, non c' era nemmeno un collega in aula.
E che dopo la sentenza non c' è stata nessuna forma di dibattito, nessuno spirito di condivisione».
Ti sei dato una spiegazione?
«Tranne casi rari, scrittori odiano scrittori e giornalisti disprezzano giornalisti. Ci si accanisce l' un contro l' altro per un mercato minuscolo di pochissimi lettori, in un caos di attenzione.
Quindi in una situazione del genere, con alcune eccezioni, è impossibile contare su un fronte comune. Neanche quando è un boss ad aver minacciato la libertà di espressione, e la semplice parola ha messo paura a un clan, al punto da costringerlo a emettere una condanna a morte per chi l' ha pronunciata. Questo, sì, mi ha deluso.
Ma è una delusione di cui facilmente potevo prevedere l' esito».
La lotta alle mafie è oggi una priorità, nel dibatti pubblico e nell' agenda politica?
«No, la lotta alle mafie non è una priorità. L' agenda politica la tiene al margine, delegando solo a magistratura e forze di polizia l' attività di repressione. In una fase, peraltro, in cui la credibilità della magistratura è in crisi come mai prima».
Ricordando Falcone, il presidente della Repubblica Mattarella ha detto a Palermo che la perdita di credibilità della magistratura indebolisce la lotta alle mafie.
«Condivido e sottoscrivo parola per parola, così la lotta alle mafie diventa sempre più difficile da fare».
Qual è la mafia, o il clan, che oggi meriterebbe una attenzione come quella che Gomorra, prima come libro, poi come film, infine come serie, ha dato alla camorra dei casalesi?
«Dovrei rispondere, naturalmente, che la centralità delle organizzazioni calabresi oggi è sempre più forte. Ma è quello che conta è il metodo. Vale per i clan calabresi, come per quelli foggiani, potentissimi: il racconto deve coinvolgere. E quindi dico che decisivo è il metodo di scrittura. La necessità di mostrare come queste organizzazioni appartengono alle nostre vite. Non vanno considerate come eccezioni o escrescenze mostruose. Se così fosse, sarebbe facile contrastarle. Ma purtroppo non è così».
E quindi?
«Per questo c' è ancora una grande necessità di racconto».
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