Rinaldo Frignani per il "Corriere della Sera"
sapevamo gia?? tutto perche?? la mafia resiste e dovevamo combatterla prima
«Càlati juncu cà passa la china», ovvero «piegati giunco perché passa la piena». Prima che per contrastare il coronavirus, la resilienza - esaltata da questo proverbio siciliano - è stata anche un'arma in mano alla mafia. Molto prima che nel 1984 don Masino Buscetta aprisse, con il suo pentimento davanti al giudice Giovanni Falcone, uno squarcio decisivo per disegnare l'organigramma della cupola e del suo esercito.
Ma se è vero che «i meriti vanno attribuiti al magistrato inquirente, dotato evidentemente di orecchie che volevano sentire; sensibile e soprattutto in grado di offrire fiducia al testimone pentito, sintonizzandosi in modo credibile nei confronti del mafioso disposto a collaborare», è altrettanto vero che «già dalla fine dell'Ottocento sapevamo molto e si erano registrati importanti approcci investigativi e accertamenti dell'autorità giudiziaria, in grado di delineare un quadro in cui si scorgevano con chiarezza i tratti salienti dell'organizzazione».
«Sapevamo già tutto: Perché la mafia resiste e dovevamo combatterla prima» (Solferino Libri), è il titolo del saggio del generale di divisione Giuseppe Governale, già comandante del Ros dei carabinieri e poi direttore della Dia dal 2017 al 2020, inserito nella collana Melampo diretta da Nando dalla Chiesa.
giovanni falcone paolo borsellino
Un lungo viaggio nella storia di Cosa nostra: dai 31 rapporti inviati al procuratore del re nel 1898 dal questore di Palermo Ermanno Sangiorgi, nei quali già venivano descritti (proprio come fosse un rapporto di oggi) non solo organizzazione e metodi dei clan, ma anche le loro infiltrazioni nella Palermo che contava e a Roma, fino alla stagione dell'attacco allo Stato, passando però anche dalle confidenze del vicequestore Cesare Mori, mandato a combattere i briganti nel 1916, preoccupato dal fatto che nel resto d'Italia non si comprendesse la differenza con i mafiosi.
Del resto risale al 1900 il dramma teatrale «La mafia» di Luigi Sturzo, «una testimonianza forte dei legami già allora esistenti tra mafia e istituzioni - scrive Governale nella sua introduzione - legami così forti e intensi da condizionare la giustizia». Come accertò di persona nel 1971 l'allora colonnello Carlo Alberto dalla Chiesa, comandante della Legione carabinieri di Palermo nel «Rapporto giudiziario sui 114», scritto con Boris Giuliano, Giuseppe Russo ed Emanuele De Francesco (i primi tre caduti nella lotta alla mafia), dopo l'omicidio del procuratore capo Pietro Scaglione, e come scritto dieci anni prima da Leonardo Sciascia ne «Il giorno della civetta», dove la mafia non era più quella della coppola e della lupara. Anche se «essere subdoli, guardinghi, cerimoniosi, malvagi quando occorre, vendicativi oltre ogni misura», rimane la caratteristica di ieri e di oggi degli affiliati a Cosa nostra, che «come l'ago di mercurio di un termometro sale su, su per l'Italia, ed è già oltre Roma».
Contro il quale non si può adottare la strategia dello «zero a zero» ma anzi sfruttare i successi - scrive ancora Governale - con «un coinvolgimento più generale della società civile, non bastando i soli sforzi investigativi: la mafia è una malattia oramai cronica, ad andamento altalenante: si combatte con il distanziamento sociale, cioè evitando l'esposizione, e con il vaccino, tenendo presenti le possibili mutazioni». Tanto più che ormai da un quarto di secolo le organizzazioni criminali «hanno scelto il tempo dell'attesa, quello dell'incudine, ma la partita è tutt' altro che vinta».
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