Simone Di Meo per Dagospia
Che cosa spinge un poliziotto, chiamato a testimoniare in tribunale, a non riferire fedelmente quanto a sua conoscenza? Memoria difettosa, incapacità, superficialità? Le motivazioni dell'assoluzione del giornalista Roberto Ruju, ingiustamente arrestato con l'accusa di violenza sessuale, a Napoli, sono la fotografia ad alta risoluzione del livello di approssimazione che sempre più spesso tocca la giustizia nel nostro Paese.
Ruju, che ha trascorso quasi dieci mesi tra carcere e domiciliari, ha rischiato anni e anni di galera perché, tra le tante prove illogiche e contraddittorie che lo hanno portato alla sbarra, ce n'è una che sta solo nella testa dell'agente che la sera del 16 novembre 2014 gli stringe le manette ai polsi. Emerge quasi a dibattimento concluso, quando il pm si appresta a chiedere la condanna del disgraziato.
Il poliziotto sta rispondendo alle domande del sostituto procuratore e dichiara – si legge nella sentenza – che “la persona offesa aveva espressamente fatto riferimento a un giubbino smanicato indossato dall'aggressore con una felpa di colore nero o scuro”.
Il giubbino è una prova importante per l'ipotesi della Procura. Perché è l'unico gancio che consente agli inquirenti di non lasciarsi sfuggire Ruju, considerato che altri dettagli (il tipo di lenti, il taglio dei capelli, il colore delle scarpe, il tono della voce) sono stati via via demoliti dalle indagini difensive dell'avvocato Maurizio Lojacono.
È un punto irrinunciabile quel capo d'abbigliamento perché, a descrivere il bruto, è stata la stessa vittima in sede di denuncia che non può certo essersi sbagliata. Invece, accade che sia proprio la giovane molestata a far crollare tutto, quando le tocca essere interrogata. “La stessa persona offesa – scrivono infatti i giudici – ha dichiarato di non aver mai detto agli agenti di p.g. che l'aggressore indossava anche un giubbino smentendo palesemente le dichiarazioni rese dall'agente”.
Da dov'è uscito allora questo benedetto giubbino? Perché il poliziotto ne ha parlato se la vittima non ne ha fatto cenno? In realtà, lo smanicato era indossato dal Ruju al momento del fermo e sarebbe venuto in risalto, ma solo per i poliziotti, esclusivamente in quella occasione.
Non è l'unico errore nell'inchiesta. Lo stesso poliziotto non è stato chiaro nemmeno su un altro aspetto qualificante della ricostruzione accusatoria, ovvero l'orario del filmato di una telecamera di sicurezza che, per caso, immortala la sagoma del violentatore che s'intrufola nel portone dove è appena entrata la povera ragazza. È il penalista Lojacono ad accorgersene per primo. Le immagini portano un timing falsato di sette minuti avanti rispetto a quello effettivo. L'agente, però, non si preoccupa di riferirlo al pm, anzi a dibattimento sostiene il contrario. E cioè che sia falsato di sette minuti indietro. Facendo cadere così la ghigliottina sul collo nudo di Robertino.
“In ordine a tale dato elementare – si legge ancora nella sentenza – l'ispettore ha a lungo equivocato riuscendo a riferire, solo dopo molte domande, se il videoregistratore riportasse un orario errato di sette minuti indietro o avanti rispetto all'orario reale. Tale errore influirà sulle indagini”. In maniera drammatica.
Allora: perché la divisa se n'è stata zitta su un particolare che poteva costare la libertà a un innocente che, mentre si consumava la violenza, era dall'altra parte della città a scattarsi selfie sotto la pioggia? C'è infine un altro passaggio inquietante, in questa storia, e riguarderebbe una foto che un agente non meglio identificato avrebbe fatto al giornalista, con un cellulare, nelle stanze della Questura, poco prima del confronto all'americana con la vittima.
Il particolare sul momento poteva apparire anche irrilevante. Ma alla luce dei successivi accertamenti, ora la questione è un’altra: se la circostanza fosse confermata, perché la foto serviva con tale urgenza? E chi l'ha vista prima del faccia a faccia?