Paola Piacenza per "www.iodonna.it"
Consigli di amministrazione e studi di avvocati. Per individuare i cambiamenti innescati dal movimento #MeToo, a un anno e mezzo dalla sua nascita, bisogna cercare tra le boiserie. Le teste – con una leggera prevalenza dei produttori sugli attori – continuano a saltare.
L’ultima in ordine di tempo è quella del Ceo della Warner Kevin Tsujihara, la cui posizione a capo di uno degli Studios più imponenti di Hollywood è stata giudicata incompatibile con gli sms inviati a un’attrice inglese e pubblicati dall’Hollywood Reporter.
Ma per un executive che esce dalla porta un altro rientra dalla finestra. John Lasseter, già direttore della Pixar accusato di molestie nel 2017, ha infatti trovato un nuovo lavoro alla testa del dipartimento animazione di Skydance. L’attrice Emma Thompson si è risentita e ha lasciato un progetto, Luck, per non averci a che fare.
Coté registi, Woody Allen – il cui ultimo film A Rainy Day in New York, non è stato distribuito, nonostante le accuse mosse all’autore di Io e Annie dalla figlia Dylan fossero state archiviate con un non luogo a procedere a metà degli anni ’90 – ha fatto causa ad Amazon: 68 milioni di dollari per rottura di contratto.
Ma gli attori? La conquista che si è aggiudicata un taglio basso in prima sul New York Times porta il nome di una nuova specialità, intimacy coordinator, il coordinatore di intimità.
La signora britannica assai intervistata dai giornali di tutto il mondo cui si deve la compilazione di un codice etico in base al quale girare le scene di sesso, si chiama Ita O’Brien e la sua agenda deve essere piuttosto fitta se l’emittente televisiva Hbo ha annunciato che d’ora in poi non ci sarà bacio, francese o meno, che non porti il suo avvallo.
Il futuro: regole e coreografie
O’Brien, che è un’ex danzatrice e stunt, nel codice di sua formulazione prevede un accordo a monte sulle aree del corpo da coinvolgere nell’atto, l’adozione di un vocabolario non sessista nell’indicazione delle medesime e la necessità di coreografare ogni movimento per non lasciare spazio all’improvvisazione.
Riesce difficile immaginare come girerebbe oggi Lars Von Trier Nymphomaniac, Tinto Brass Caligola, Vincent Gallo la celebre scena della fellatio in The Brown Bunny, o Patrice Chéreau quella di Intimacy, per non parlare di classici come Ecco l’impero dei sensi di Nagisa Oshima.
Ma parliamo di gente che a Hollywood non ha mai messo piede. Un film rumeno dove si parla molto e si fa sesso non simulato, Touch me not(Ognuno ha il diritto di amare), precipitò nello sconcerto parte della critica europea quando vinse la Berlinale nel 2018. Il critico del britannico Guardian inserì l’Orso d’oro al film di Adina Pintilie tra le catastrofi del momento, «insieme alla presidenza Trump e alla Brexit». Ma non arrivò a invocare la dittatura dei coach.
A voler mettere mano alla calcolatrice, tra le conseguenze di #MeToo va annoverato prima di tutto il fatto che il sesso, pur facendo parte della vita, fa sempre meno parte delle sceneggiature dei film americani. E quando c’è riporta le lancette dell’orologio al codice Hays (entrato in vigore nel 1930, stabiliva cosa fosse “moralmente accettabile” in un film).
Agenti, avvocati e centimetri di pelle
In Disobedience del 2018 Rachel Weisz e Rachel McAdams girano una scena di sesso lesbo senza mai togliersi il reggiseno. «Chi ci crede?» commentò una parte della critica Usa.
Per anni del resto avevamo visto tre delle quattro protagoniste di Sex and the City, la serie che avrebbe «cambiato per sempre la visione del mondo (e di sé) delle donne americane», avere rapporti semi-vestite.
Samantha, la più edonista del quartetto e l’unica di cui abbiamo intravisto i capezzoli, era portatrice di un’idea probabilmente condivisa dagli avvocati e dall’agente di Kim Cattrall, l’attrice che la interpretava: la libertà ha poco a che fare con la negoziazione sui centimetri di pelle scoperta. Soprattutto quando l’aspirazione alla libertà rischia di farsi imbrigliare dal sistema che si intende contestare.
Sul tavolo la prima pratica da evadere, nel luogo in cui è “follow the money” (segui la pista dei soldi) l’indicatore principale, resta quella della parità salariale. Pagate meno dei loro colleghi maschi, le attrici possono contare sulla tutela dell’intimacy coordinator. Qualcosa non torna. Così come – e ancora una volta dobbiamo far ricorso ai dati – nell’incidenza di ruoli femminili nei film di grosso budget. Scrive Variety: «Anche se film come Halloween, A Star is Born e Crazy & Rich hanno proposto ruoli femminili forti, l’industria continua a dare le parti migliori agli uomini».
Secondo la statistica compilata dal Center for the Study of Women in Television & Film della San Diego State University alle donne spetta solo il 36 per cento dei ruoli da protagonista. E quando poi dai primi ruoli si scende nella scala gerarchica, il dato di quelli che passano il Bechdel Test rispetto al periodo pre-#MeToo resta stagnante.
Diverso è il discorso per i cosiddetti film indipendenti: dalla visione di Tully con Charlize Theron o The Wife con Glenn Close si esce davvero con la sensazione di aver visto un film su una donna. Per non parlare di Gloria Bell, ancora sugli schermi, con Julianne Moore protagonista tra l’altro di scene molto intime (e senza reggiseno), girate con grande delicatezza da Sebastián Lelio (lo stesso regista di Disobedience).
Insomma, se il budget ha qualche zero in meno parrebbe che ci si guadagni in libertà e, se si è bravi, anche in creatività. «Stiamo lavorando diligentemente per far sì che la narrativa su #MeToo cambi» ha dichiarato Tarana Burke, la fondatrice del movimento al magazine The Cut. «Dobbiamo smettere di pensare che si tratti di una guerra di genere, una guerra tra uomini e donne, e soprattutto che valga solo per un certo tipo di persone – donne bianche, cisgender (cioè, chi è a proprio agio con il suo genere), eterosessuali, famose».
Ora anche Marvel ha la sua eroina
Liberare la parola delle donne dovrebbe avere come conseguenza, soprattutto entro i confini di un’industria che macina molti miliardi di dollari, quella di liberare spazio per le donne. È un buon segno che uno dei film di maggior successo al botteghino in queste ultime settimane sia Captain Marvel, con una donna (Brie Larson) a indossare l’attillata tutina dell’ero(ina) Marvel? Charlize Theron, che in Mad Max: Fury Road diceva a Tom Hardy quello che doveva fare, ci dava, per tutto un insieme di ragioni, più piacere.
È il sito Women and Hollywood a tirare le somme sul campione di cui Captain Marvel fa parte, i blockbuster (100 film distribuiti nel 2018): il 4 per cento è diretto da donne, il 15 scritto da donne, il 18 prodotto da donne. Ah, il 50 per cento del pubblico di quel genere di film è femminile.
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