Lorenzo Salvia per corriere.it
Non si tratta solo di numeri. Ma di fatti che possono avere una conseguenza diretta, e potenzialmente drammatica, sulla nostra vita di tutti i giorni. La Regione Veneto ha sospeso «ogni attività chirurgica programmata che preveda il ricorso alla terapia intensiva».
Uno stop che riguarda sia gli ospedali sia le cliniche convenzionate, seguendo scelte analoghe già fatte da altre regioni come Lombardia e Campania. E che ha l’obiettivo di proteggere i reparti di rianimazione, la vera prima linea contro la seconda ondata. Ma anche di allontanare lo scivolamento verso la zona rossa.
la chiesa del san luigi gonzaga torino con i letti d ospedale
Insieme all’indice Rt, che misura la velocità di trasmissione del contagio, è proprio il tasso di occupazione dei reparti di terapia intensiva uno degli indicatori che pesa di più nelle valutazioni sul livello di rischio delle singole regioni. Secondo le rilevazioni dell’Agenas, l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, la percentuale di posti letto di rianimazione occupata da pazienti Covid ha superato la soglia del 30%, considerata un campanello d’allarme.
Ma in alcuni casi la situazione è già molto più seria: in Piemonte siamo al 46%, in Lombardia al 49%, in Umbria al 51%, in provincia di Bolzano al 55%. Il Veneto in base all’ultima rilevazione era solo al 17%, ma la situazione sta peggiorando e si è preferito intervenire subito.
Il contagio continua a correre soprattutto nel Nord Ovest e in Toscana. Tra il 21 ottobre e il 4 novembre, la provincia che ha avuto più positivi ogni 100 mila abitanti è stata quella di Monza e Brianza: 1.422 casi. Seguita da Aosta con 1.331, Milano con 1.255 e Varese con 1.245. Ma rispetto alle due settimane precedenti salgono di posizione Prato con 1.046 positivi, Arezzo con 861 e Pisa con 839. Sono indicazioni utili ma non decisive, perché nel conto finiscono anche gli asintomatici che, se restano tali, non hanno effetti diretti sulla tenuta degli ospedali.
Ma danno un’idea complessiva della tendenza, che resta preoccupante. L’Ecdc, il Centro europeo per il controllo e la prevenzione delle malattie, ogni giorno pubblica il dato dei contagi rilevato negli ultimi 14 giorni, sempre ogni 100 mila abitanti. L’Italia è arrivata a quota 625. Alla fine di ottobre eravamo a 424, a metà ottobre a 95, all’inizio del mese ad appena 38. La rappresentazione plastica della seconda ondata.
coronavirus ospedale di varese
Ieri, però, è stato scontro su un altro indicatore dell’Agenas, meno pesante nelle valutazioni sul livello di rischio ma comunque importante: il tasso di occupazione, sempre da parte dei pazienti Covid, dei posti letto in area medica, cioè fuori dalla rianimazione. In Italia siamo al 46% (10 regioni sopra la soglia critica del 40%) con punte del 69% in Lombardia, del 93% in Piemonte, addirittura del 98% in Alto Adige. Numeri contestati da Dario Manfellotto, presidente della Federazione internisti ospedalieri: «Nella quasi totalità degli ospedali italiani siamo a un’occupazione di posti letto che supera il 100%. Non ci sono posti liberi nella gran parte dei nostri ospedali considerando pazienti fuori reparto, quelli Covid e quelli con altre patologie».
Purtroppo tra i dati Agenas e le sue dichiarazioni non c’è contraddizione. Le tabelle Agenas misurano solo il tasso di occupazione dei pazienti ricoverati per il Covid, senza mettere nel conto quelli che sono in ospedale per altri motivi. Quindi gli ospedali sono pieni. E sono pieni non solo, ma anche, di pazienti Covid. Il problema vero è proprio questo, la tenuta delle strutture sanitarie davanti a una seconda ondata che cresce mentre l’inverno deve ancora cominciare.