Estratto dell’articolo di Fabiana Giacomotti per “il Foglio”
Negli anni Ottanta, sulle spiagge della Liguria di Levante e della Versilia arrivarono i primi vu cumprà. Vendevano parei e borse false dei marchi del momento. Erano, vado a memoria, sacche di Borbonese, Kelly di piccola misura, i primi zainetti di nylon di Prada. A Santa Margherita andava per la maggiore tale Aziz, chissà se era il suo vero nome, ingegnere del Mali con famiglia a carico.
[…] Le ricche sfoggiavano entrambe, la borsa vera e quella falsa, come un gioco di società: “Riconosci quella di Aziz?”. Gli stessi brand lasciavano in buona parte correre, dopotutto non era stata Coco Chanel a sostenere che la contraffazione e la copiatura siano il vero e unico segno del successo? All’inizio degli anni Novanta, si iniziò a sapere dove e a quali condizioni fossero fatte, le borse tanto divertenti, e anche quali giri e traffici alimentassero, fra il centro e il sud Italia.
Droga, prostituzione, oltre allo sfruttamento del lavoro e al traffico umano degli stessi vu cumprà, si intende. Il decennio venne contrassegnato dalla lotta alla contraffazione, e i media riportavano immagini dei roghi di occhialeria falsa.
Comprare falsi era meno figo di prima. Tutto cambiò nuovamente con la delocalizzazione e con l’esportazione del know how italiano, francese e americano in Cina, e il prodotto made in China, un tempo schifato, divenne molto ben fatto, benché a condizioni che nessuno voleva conoscere.
Con l’evoluzione dell’economia di mercato cinese, anche il prodotto locale venne a sua volta delocalizzato; dove e come, beh, abbiamo il decimo anniversario della tragedia del Rana Plaza di Dacca, occorsa due giorni fa, a ricordarcelo. Millecentotrentotto morti, perlopiù donne, duemilacinquecento feriti.
Fra le macerie si trovarono le etichette di alcuni dei marchi più noti del mondo, da Zara a H&M, Gucci, Versace. Ne nacquero movimenti per la tutela dei lavoratori, le prime vere inchieste, la consapevolezza che la moda era un mercato che sfruttava il lavoro e il pianeta, modificando in via permanente la morfologia dei paesi dove scaricava i suoi rifiuti tessili, per esempio il Ghana. Un sistema nel quale prodotti falsi e veri si sfioravano pericolosamente.
[…] Oggi, nell’Unione europea, la discussione sui codici green e la sostenibilità sociale vanno avanti da anni, fra inesauribili lotte intestine perché gli interessi produttivi dei paesi del nord, leggasi H&M, non sono gli stessi di quelli del sud, dove la moda di lusso è prodotta e il fast fashion esecrato.
Nel frattempo, da una recente ricerca dell’ufficio proprietà intellettuale della Ue, si scopre che i quindici-ventenni di oggi sono tornati allo stesso punto delle loro nonne, e cioè che comprano falsi. L’hanno fatto per il 37 per cento nell’ultimo anno. Ai grandi brand, che per rispondere alle esigenze di trasparenza e alla crisi finanziaria hanno alzato vertiginosamente i prezzi degli accessori più desiderati, in gergo “iconici”, rispondono comprando falsi, disinteressandosi di dove vengano prodotti, a quali condizioni, da chi. […]