L’ARTE DEI SELFIE COSÌ I MUSEI CAVALCANO LA PASSIONE SOCIAL
Giulia Zonca per “la Stampa”
Storia di una relazione contorta tra l' arte e la sua rappresentazione, ci vorrebbero secoli oppure un click, magari più di uno, per immortalare l' ultima versione della sindrome di Stendhal: estasi da selfie. Prima di dire che è solo una deriva per giovani in cerca di approvazione sarà meglio guardare per terra dentro al prossimo museo, facile che ci troviate degli adesivi giganti che segnalano l' opera ideale per l' autoscatto.
Può essere che vicino al quadro più famoso ci sia la gentile richiesta di evitare la posa e attendere fino alla riproduzione collocata più avanti, nell' angolo ideale, con la luce perfetta e lo spazio migliore per piazzarsi giusto dentro il capolavoro in un' immagine da tramandare, magari non ai posteri, ma a qualche migliaio di persone su Instagram.
L' impulso è diffuso e irrefrenabile e davvero provoca gli stessi sintomi della nota sindrome: giramenti di testa, tachicardia, confusione e allucinazioni, tutti i gradi del vortice da meraviglia. Solo che vedere non basta più, serve condividere e senza foto sembra quasi di non essere mai stati lì. Il fervore contemporaneo obbliga le gallerie a cambiare tattica. Prima snobbavano la mania del ricordo, bollata come superflua e posticcia, lontana dalla fruizione della bellezza, peccato che l' arte resti un' esperienza troppo personale per reggere i divieti.
I curatori delle mostre hanno capito la necessità e pure la forza dell' hashtag: gira il mondo, trova canali inediti, attira visitatori e persino città che intuiscono il potenziale di un' esibizione e si muovono per affittarla. Non si tratta di contare i «mi piace», ma di capire l' impatto. E di reggere l' urto.
Il cambio di rotta è iniziato con un' opera concepita per farsi fotografare, furbetta, al limite della provocazione: 2012, Londra, al Barbican Center installano La stanza della pioggia che si ferma nei punti in cui la gente cammina. Non solo interattiva, dichiaratamente maliziosa.
L' opera che ha bisogno di te per mostrarsi, il digitale che incontra l' intellettuale mentre letteralmente ti piovono mille riferimenti sulla testa. Il lavoro concepito da un trio uscito dal Royal College of Art (Koch, Ortkrass e Wood), è andato in tournée, richiesto da New York, Los Angeles, soprattutto ancora vive in infiniti post. Ha scoperto una dimensione social che mai si era scatenata prima ed evidenziato un potenziale difficile da ignorare. Quando la necessità si fa marketing.
Impossibile negare la foto, i grandi musei hanno dovuto inserire lo spazio condivisione nel percorso. Se andate a vedere Mirò, a Torino fino al 14 gennaio, trovate i punti selfie, per quanto pacchiano sia vi evita di sentir scattare il flash dello smartphone in piena contemplazione delle calligrafie giapponesi. C' è pure la mascotte pronta per uso ricordo all' uscita.
Chi non è interessato evita, però chi ha visceralmente bisogno di portarsi a casa un pezzo dell' esperienza, di dividere l' emozione con la propria rete, di sperare che un brivido personale si diffonda oltre la cerchia può accomodarsi nel mezzo della sezione dell' Atelier Taller Sert, lo studio di Maiorca. Può credere di averlo quasi abitato, con una buona dose di immaginazione, materiale di cui comunque l' arte si nutre.
A San Pietroburgo hanno accompagnato i cacciatori di icone con il trucco alla Frida Kahlo, a Parigi hanno creato una segnaletica per entrare dentro il mondo di Jeff Koons, a Madrid piazzato i cartonati di Velazquez in cui puoi mettere la faccia in scene del 1600, una società di comunicazione si è inventata il sito «VanGoYourself», da una parte il viso ritratto da Van Gogh, dall' altra tu che lo imiti. Sperimentano format per promuovere collezioni.
La cultura si stizzisce e assorbe, si racconta che è un modo per sedurre nuove generazioni, per diffondere piaceri, per arginare chi non si sa controllare e finisce per demolire una scultura in cerca dell' inquadratura da sogno. È successo, a Los Angeles, un effetto domino da 200 mila dollari di danni. E un' ondata di pubblico per la personale di Simon Birch.
È anche nato il «selfiemuseumday», il 17 gennaio la terza edizione. Arginarlo o sfruttarlo è una parte del dilemma: mi se vede di più se vieto la foto o se la indirizzo. Per scoprirlo ci vorranno altri click. O altri secoli.
2 - L’ARTE CONTEMPORANEA ALL’EPOCA DEI SELFIE
Antonello Tolve per “ArtTribune”
Quella del selfie è senza dubbio una delle pratiche più diffuse del nostro tempo. Ma come ha influenzato l’arte contemporanea? È un fenomeno da demonizzare o da cavalcare?
Tra i fenomeni che caratterizzano l’era contemporanea, permeata di dispositivi elettronici che – almeno negli ultimi decenni – hanno trasformato radicalmente la sfera interpersonale, il selfie rappresenta il rischio di una sempre più avvertita vetrinizzazione dell’uomo, definitivamente risucchiato in un processo di spettacolarizzazione degli individui e della società.
Dalla valorizzazione del prodotto innescata con la nascita della vetrina settecentesca si è passati gradualmente a una venefica ostentazione della intimsphäre e a dannose proairesi collettive che puntano l’indice sull’apparire a discapito del pensare, del riflettere, dell’indagare le cause di una perdita inconsolabile, quella della privatezza (privacy), ormai definitivamente eclissata dalla echo boomers generation, dall’utilizzo costante di fotocamere digitali compatte incluse in smartphone e tablet.
Gli affetti, la sessualità, il corpo (quante le immagini quotidianamente condivise sui social network dalla millennial generation), l’attività sportiva, i media, il tempo libero, i luoghi del consumo, gli spazi urbani e persino le pratiche relative alla morte – come non ricordare i Conformisti e le Irritazioni di Gillo Dorfles? – sono diventate luoghi di dominio pubblico, spazi estroflessi dal proprio perimetro protettivo e catapultati, senza alcuna cintura di sicurezza, nel moskenesstraumen dell’esibizionismo.
Se è vero che la cultura dell’autoscatto nata con i reality show (nel 2004 Francesco Vezzoli, con i suoi Comizi di Non Amore, ha elegantemente informato che “il cinema-verità degli Anni Sessanta”, quello di Pasolini appunto, “si traduce nel Grande Fratello degli Anni Novanta”), che porta la popolazione tecnoliquida a raccontarsi e a esibire costantemente il proprio vissuto, rappresenta un rischio allarmante e crescente, è pur vero che nel campo dell’arte si fa pratica diffusa: indagine di un’atmosfera, impegno sociale o mero self-branding e naturalmente personal storytelling. L’artista assume infatti questa scoraggiante compagine sociale per promuovere il proprio lavoro o, d’altro canto, per disegnare una strategia investigativa, fornendo risposte, utilizzando il sistema del selfie per mostrare la scelleratezza, la catastrofe, la castrazione comunitaria.
DA VACCARI A CINDY SHERMAN
Già nel 1972 Franco Vaccari presentava alla XXXVI Biennale d’Arte di Venezia l’opera Esposizione in Tempo Reale n° 4, dove una scritta sul muro – Lascia su queste pareti una traccia fotografica del tuo passaggio – invitava i visitatori a rendersi parte della mostra e a creare mediante una Photomatic un discorso collettivo. Tuttavia il fenomeno si acuisce in questo primo ventennio del XXI secolo con declinazioni che trasformano l’artista in un “selfista”.
Al 2013 risale, ad esempio, National #Selfie Portrait Gallery, progetto ideato e curato Marina Galperina e Kyle Chayka per la Moving Image Art di Londra che raggruppava brevissimi video realizzati, per l’occasione, da diciassette artisti internazionali: Anthony Antonellis, Kim Asendorf & Ole Fach, Jennifer Catron & Paul Outlaw, Jesse Darling, Jennifer Chan, Petra Cortright, Leslie Kulesh, Yung Jake, Rollin Leonard, Jayson Musson, Alexander Porter, Bunny Rogers, Carlos Sáez, Daniel Swan, Angela Washko, Addie Wagenknecht e Saoirse Wall.
“Il progetto rappresenta un meta-commento sul self-brading nell’era digitale. I selfie non sono sempre arte, ma queste opere d’arte sono sicuramente dei selfie”, ebbero a dire i due curatori in un’intervista rilasciata a Erin Cunningham de The Daily Beast.
Notevole è, nell’ambito di una ricerca dedicata al genere y (quello della generazione y, appunto), il progetto Selfies and the New Photography. 50 Artists/50 Selfies: open call lanciata da Patrick Lichty (artista, curatore e ricercatore nell’ambito della percezione multimediale) nel 2014, o quello organizzato a Milano nello stesso anno dal PhotoFestival che, con la mostra City Mobility, ha dedicato un focus alla galassia della selfiemania.
Con From Selfie to Self-Expression (2017), la Saatchi Gallery di Londra disegna dal canto suo un itinerario del mondo del ritratto – in mostra opere di vari artisti, tra cui van Gogh,Velázquez, Frida Khalo, Tracey Emin, Cindy Sherman e Kutlug Ataman – per ricordare non solo un genere antico ma anche e soprattutto per esplorare il potenziale creativo degli autoscatti contemporanei. “Negli ultimi cinque secoli gli esseri umani sono stati ossessionati dal creare immagini di se stessi e condividerle”, ha avvertito Nigel Hurst, curatore della mostra. “L’unica cosa che è cambiata oggi è il modo in cui lo facciamo”. Accanto alla mostra, di notevole interesse è stato il concorso internazionale denominato #SaatchiSelfie, che ha offerto la possibilità di partecipare – e i partecipanti sono stati invitati a “esprimersi esplorando e promuovendo oggi il potenziale creativo del selfie” – a un fenomeno (culturale?) dalla portata mondiale, i cui esiti ultimi sono ancora da scrivere.
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