Marta Serafini per il “Corriere della Sera”
fabbriche in donbass bombardate
«Non c'è una logica: i russi vogliono conquistare il Donbass ma stanno distruggendo tutte le industrie». L'ultima volta che Andriy è stato in fabbrica era una settimana fa. Poi il suo stabilimento è stato bombardato. E da quando i raid su Sloviansk si sono intensificati, Andriy vive chiuso nel rifugio della sua casa con la moglie Viktoria e i due figli. «Per ora mi pagano lo stipendio, ma non so ancora per quanto».
Poco più in là, appena fuori Sloviansk, allo stabilimento della Zeus Ceramica, un tricolore logoro e una bandiera ucraina sventolano insieme alle stelle su sfondo blu dell'Unione europea. «C'è una parte di Italia qui», dice Anton, l'uomo della sicurezza, mentre apre il cancello e mostra le macerie.
Fu davanti a questa fabbrica che il 24 maggio del 2014 venne ucciso il fotoreporter Andy Rocchelli. Ed è qui in Donbass che la società modenese Caolino Panciera ha parte della sua produzione. Fino a martedì scorso, quando l'impianto è stato bombardato. «Prima del 2014 il 30 per cento dei clienti era russo», spiega Alexander Bohoslavskyy, general manager della Zeus. «Poi, con la guerra, dati i rapporti politici complicati abbiamo iniziato a diversificare».
Va in ginocchio l'economia del Donbass. «L'impianto era già stato bombardato e occupato otto anni fa dalle forze separatiste. Quando se ne sono andate, abbiamo ripreso possesso della fabbrica, l'abbiamo rinnovata e riavviato la produzione. Forse è per questo che ci hanno colpito ancora: per vendicarsi», ipotizza Bohoslavskyy.
fabbriche in donbass bombardate
Ma non è solo Sloviansk. Anche a Bakhmut due impianti sono stati messi fuori uso dai raid russi. Uno è quello della Siniat, che lavora il gesso. «Qui davanti alla fermata del bus ogni giorno c'erano centinaia di operai, ma ora non si vede più nessuno», spiega Dmitry, pensionato che vive lungo la strada.
Stessa scena a Soledar, dove gli impianti di estrazione di sale sono tutti fermi mentre la città ha le ore contante. E durante la presa di Severedonetsk è stato distrutto anche l'impianto chimico dell'Azot.
Spiega la docente della Kyiv School of Economics Khrystyna Holynska: «La guerra in Donbass ha causato nei primi due anni una perdita di circa 150 miliardi del Pil di tutto il Paese. Nella regione si passa da 25 miliardi nel 2013 a 5,8 miliardi nel 2015, un calo del 77 per cento».
Un quadro che ha fatto aumentare la disoccupazione portandola al 14,5 per cento nella regione di Donetsk e al 15,2 in quella di Lugansk, rispetto alla media nazionale del 9,2. E che, con il proseguire della guerra, non può fare altro che peggiorare sia a livello economico che sociale.
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«Lo stipendio medio di un operaio in Donbass è di 9.000 grivne (300 euro). L'aspettativa di vita è di due anni al di sotto della media nazionale. La densità di inquinamento sei volte superiore. I livelli di criminalità, tossicodipendenza e infezioni da HIV sono tra i più alti del Paese», continua Holynska.
Ma alla domanda di Andriy sul perché i russi stiano distruggendo le fabbriche è difficile dare una risposta. «Putin vuole il tesoro minerario del Donbass. Non c'è che l'imbarazzo della scelta. Dalla regione proviene il 90 per cento del gas neon, base dei chip elettronici. Ma anche litio, carbone e lignite. La sua priorità sono gli impianti estrattivi che, guarda caso, non vengono bombardati».
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A Kramatorsk, davanti al palazzo della cultura, Pavel Kulish scuote la testa sconsolato. Tre giorni fa i russi hanno bombardato la piazza centrale danneggiando un teatro e una biblioteca. A costruirli fu, ai tempi dell'Urss, la Nkmz, colosso della regione che produce macchine industriali.
«Qui abbiamo ancora 7.700 tra operai e impiegati. Buona parte della città dipende dalla Nkmz», sospira Kulish, capo delle relazioni commerciali. «Gli impianti sono ancora integri ma sono stati chiusi in via preventiva. Siamo riusciti a mettere in cassa integrazione una parte dei dipendenti: lo Stato ucraino copre solo tre mesi di sussidio. E ora questa gente è senza lavoro e sotto le bombe».
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