Massimo Arcangeli per “Libero quotidiano”
I macellai saranno contenti di saperlo. Nel dialetto meneghino ottocentesco, si legge nel glorioso Vocabolario milanese-italiano di Francesco Cherubini (Milano, Imp. Regia Stamperia, vol. III, M-Q, 1841, p. 7), le «persone civili» preferivano macellar (e macell) al popolaresco becchée (e beccaria).
Quest' ultima parola, già documentata, nella sua schietta variante toscana, nel Purgatorio di Dante («Figliuol fu' io d'un beccaio di Parigi», XX, 52), aveva via via ceduto il passo a macellaio, e lo stesso era avvenuto per beccheria rispetto a macello: «Per Luogo dove si vende la carne macellata è oggidì voce usata in Toscana più comunem. che Beccherìa» (Dizionario universale critico-enciclopedico della lingua italiana dell'abbate D'Alberti di Villanuova, Lucca, Domenico Marescandoli, tomo quarto, K-O, 1803, s. v. macello).
I veneziani, dal canto loro, tenevano separato il luogo di macellazione delle carni (macello) dall'esercizio commerciale deputato alla loro vendita (beccheria): «In Venezia (...) si distingue il Macello dalla Beccheria. Il primo è il luogo dove propriamente si macellano gli animali, l'altra dicesi la Bottega dove si vende al minuto la carne macellata» (Dizionario del dialetto veneziano di Giuseppe Boerio, Venezia, Andrea Santini e Figlio, 1829, s. v. macèlo).
Macello discende dal latino macellum, designante in origine un mercato adibito alla vendita di carne e altri generi alimentari. Dalla voce latina, prestata all'antica lingua di Roma dal greco (mákellon, di probabile origine semitica), avrebbe quindi preso le mosse macellarium ("venditore di generi commestibili"), che si sarebbe poi sviluppato in macellaio (e varie altre forme, tra regionali e dialettali: da macellaro a mascellaio).
Sull'evoluzione semantica del termine, non bastasse la taccia di "persona bestiale o sanguinaria", o di "chirurgo maldestro o incapace", avrebbe pesato come un macigno anche Jacopone da Todi con la sua «lengua macellaia» ("bestemmiatrice, blasfema"). Ignorata, la categoria, anche da Numa Pompilio.
Il re, secondo la tradizione, aveva distribuito la popolazione plebea, artigiana e operaia in otto collegi, più un nono per le arti e i mestieri(minori)restanti: vasai(figuli) e calzolai (sutores); tintori (tinctores) e conciatori(coriarii); falegnami (fabrii tignarii) e orefici (aurifices); flautisti (tibicines) e lavoratori del rame (fabri aerarii). Assenti, coi tessitori e i lavandai, i panettieri e i lavoratori del ferro (fabri ferrarii), anche i poveri macellai.