Fausto Biloslavo per “Il Giornale”
convoglio misto curdo americano raqqa
Prima i boati paurosi e poi le alte colonne di fumo biancastro, che si alzano verso il cielo, sono il benvenuto all'inferno di Raqqa. L' aria rarefatta dalla calura rende questa distesa polverosa di case sulla sponda dell' Eufrate un girone dantesco. I caccia bombardieri americani martellano le postazioni delle bandiere nere nella prima e storica capitale dello Stato islamico in Siria. L'ultima roccaforte del Califfato, che si sta sgretolando. La città jihadista è sotto assedio da giugno, dopo la caduta lo scorso anno di Sirte, in Libia e la liberazione di Mosul, in Iraq, negli ultimi giorni.
«Giornalista gira delle belle immagini su di me, così resta un ricordo. Nei prossimi giorni potrei morire per liberare Raqqa», è l'epitaffio senza appello di un giovane combattente curdo al volante del blindato artigianale che fa la spola con la prima linea. Il fronte orientale di Raqqa è il più infame.
La parte della città liberata sembra uno spettro in cemento armato con le case ridotte a cumuli di macerie o sforacchiate dai proiettili come un groviera. La brigata «martire Gabar» è composta in gran parte da ventenni, comprese molte ragazze. Tutti annidati nelle case diroccate di Raqqa a ridosso dell'antico muro di cinta, linea del Piave jihadista nelle strenua difesa della città vecchia. Gli uomini delle Forze democratiche siriane, che stringono l'assedio, hanno già aperto due brecce grazie ai bombardamenti mirati americani.
Un fuoristrada arriva al punto di soccorso avanzato a tutta velocità. Nel cassone dietro sono distesi tre combattenti impolverati, laceri e con lo sguardo tirato. Due sono feriti. Kara, 21 anni, ha una spalla fracassata: «Siamo riusciti a penetrare nella città vecchia, ma è stato un incubo. Sulla strada 23 febbraio sono rimasto intrappolato con la mia unità in un edificio di quattro piani.
Noi nei primi due ed i terroristi nel terzo e quarto». Il combattente si lamenta dal dolore mentre cercano di sistemargli la spalla: «Era quasi un corpo a corpo ed oltre il muro ci sono centinaia di civili, tutti di Daesh (Stato islamico) che fanno da scudi umani». Alla fine l' avanguardia ha dovuto ripiegare. Le Forze democratiche siriane sono capeggiate dai curdi del Ypg (Unità di difesa popolare), che nel nord est del paese hanno cacciato anche il regime di Damasco creando, di fatto, una regione autonoma chiamata Rojawa, che i turchi vedono come fumo negli occhi. Trentamila uomini armati dagli Usa, comprese unità cristiane ed arabe sono impegnati nell' offensiva per liberare Raqqa.
Il comandante Lawand Khabat, barbetta, mimetica e fucile di precisione è annidato con il suo pugno di uomini in un' abitazione diroccata del fronte orientale. Ogni tanto arriva qualche granata di mortaio delle bandiere nere. Il frastuono stridente dell'esplosione ti provoca sempre un sottile brivido lungo la schiena. Il sibilo mortale dei proiettili dei cecchini che cercano la preda e le trappole esplosive nascoste ai lati delle strade sono l'incubo peggiore.
Khabat schiera le truppe ventenni sul tetto per contrastare i tiratori scelti delle bandiere nere. Il comandante fissa l'obiettivo nel mirino telescopico e tira con calma il grilletto. Takuschin, 22 anni, faccia da brava ragazza, ha i capelli raccolti e spara con il kalashnikov come gli uomini. «Non combatto solo per difendere il mio popolo e cacciare dalla mia terra Daesh (lo Stato islamico) - spiega Takushin - ma anche per voi europei minacciati dal terrorismo».
raqqa durante un attentato del 2013
Nella casa occupata le donne hanno una stanza separata dagli uomini, ma combattono come loro. L'altra ragazza si chiama Azadi. Il suo nome significa libertà ed è un' araba nata a Raqqa. Pelle ambrata e sguardo da bambina ha solo 19 anni ed un obiettivo fisso: «Voglio liberare la nostra città per la mia famiglia» costretta all' esilio dalle bandiere nere.
A Raqqa sono decisi a combattere fino alla morte almeno 3500 jihadisti compresi i volontari della guerra santa internazionale giunti dall' Europa. Un centinaio dall' Italia, anche se molti occidentali sarebbero scappati oltre l' Eufrate verso il confine con la Giordania.
Del gruppo in fuga farebbero parte anche alcuni seguaci del Califfo giunti dall' Italia. Sul fronte orientale il comandate Khabat ci porta ancora più avanti. In fila indiana con gli occhi bene aperti a dove si mettono i piedi per evitare le trappole minate. Ad ogni incrocio bisogna scattare come in una finale dei cento metri sperando che il cecchino non abbia il dito sul grilletto.
Raqqa è una città fantasma disseminata da carcasse di autobus e vetture accartocciate. Ogni tanto ti investe l'odore dolciastro della morte, che hai imparato a riconoscere nelle battaglie di Sirte e Mosul. Anche se non li vedi sotto le macerie o dietro la porta di un edificio devastato ci sono dei cadaveri.
«Sur, sur», che vuol dire «muro» ripete il comandante ragazzino indicandolo dal buco sul tetto usato come postazione dai cecchini. Oltre due barriere di sabbia in mezzo alla strada, a soli 150 metri, si alza la linea del Piave jihadista. Le antiche mura di colore giallognolo erette ai tempi di Rafiqah, il califfo che nella città sull' Eufrate stabilì la sua capitale dal 796 all'809.
Un combattente curdo ci mostra con orgoglio la bomba artigianale grossa poco meno di un pallone e con la miccia da prima guerra mondiale, che serve per gli scontri casa per casa. Nonostante l'appoggio Usa queste unità in prima linea non sembrano equipaggiate con armi moderne e pesanti.
Sulla mimetica del ragazzo spicca la stellina rossa e il faccione di «Apo» Ocalan, il leader curdo, da queste parti eroe nazionale, che sconta l' ergastolo in Turchia. Per gli americani non è più un problema. Al tramonto l' ennesimo bombardamento aereo Usa in difesa dei combattenti curdi solleva un nuvolone rossastro sulle prime linee dell' Isis a ridosso del muro di Raqqa.