Calpe, los mal llamados "baños de la Reina" son en realidad un conjunto de piscifactorías romanas, excavadas en la propia en roca del litoral en el s. II d.C. Hoy son fantásticas piscinas naturales para encontrar pececillos y más sorpresas. pic.twitter.com/V4OQqDtu7u
— Gema Cubo (@Gema02032047) August 8, 2020
Da Tag43.it
Mosaici della Villa Imperiale di Piazza Armerina
Il repertorio delle invenzioni messe a punto dagli antichi romani non si limita agli acquedotti, alla rete stradale, al diritto o alla lingua. Esiste, infatti, un panorama variegato di abitudini e di oggetti che sperimentati a Roma, sono arrivati, pur modificati dal tempo, fino a noi.
Nella sua ultima opera, Ahir Roma, avui nosaltres, uscita di recente in libreria e, per il momento, disponibile solo in catalano, la professoressa Isabel Rodà ha provato a elencare le più sorprendenti, dal bikini alle isole pedonali, passando per gli allevamenti ittici, i fast food e lo spogliarello, allora conosciuto come nudatio mimarium.
Ponendosi l’obiettivo di esaltare il valore dell’eredità romana per l’uomo contemporaneo, la studiosa si è addentrata nei meandri più nascosti della cultura, scoprendo aneddoti e dettagli davvero affascinanti. A partire dall’approccio ante litteram che i Romani ebbero con il concetto di usa e getta, ricorrendo ad anfore che, una volta importate in città dai mercati vicini e adoperate per il trasporto di viveri e liquidi, venivano distrutte e depositate in una discarica creata ad hoc. E che, oggi, ha dato vita a quello che i più conoscono come Monte Testaccio, un’altura artificiale di oltre 50 metri nata, sostanzialmente, da resti di ceramica.
Tra le storie più curiose spicca, senza dubbio, quella del costume a due pezzi. A giudicare dalle immagini delle donne ritratte nei mosaici delle ville come quella Imperiale di Piazza Armerina e dal ritrovamento della parte inferiore di una sorta di bikini in pelle in uno scavo di Londra, si trattava di un capo di abbigliamento diffuso e con un design non così lontano da quello a cui siamo abituati.
Nei capitoli dedicati all’urbanistica e all’organizzazione della città, invece, il focus è tutto sulla storia dei vigili del fuoco e delle vasche create artificialmente per allevare i pesci d’acqua dolce e salata. Per quanto possa sembrare strano, infatti, ai tempi di Augusto, esistevano squadre di pompieri che nulla avevano da invidiare a quelli moderni, soprattutto in fatto di tecniche e metodi per domare il fuoco.
E i commercianti ittici, spesso, ricreavano in mare vere e proprie piscine per curare con attenzione gli animali da vendere. Un particolare che si allinea perfettamente alla loro inaspettata preparazione in fatto di ecologia e ambiente: «Come dimostrano Marco Terenzio Varrone e Lucio Iunio Columella, conoscevano i rischi dell’inquinamento e dello sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali, della deforestazione e dell’estinzione di piante come il cedro, abbattute per ricavarne prodotti da vendere oltre i confini dell’impero», ha spiegato la professoressa Rodà.
I Romani si sono dimostrati all’avanguardia anche nella gestione del traffico: nelle piazze, infatti, non potevano circolare carri trainati da animali e, per questo, nelle città come Pompei erano stati predisposti ostacoli simili agli attuali dissuasori per regolamentare la circolazione. Ultimo particolare, ma non per importanza, il ricorso all’architettura prefabbricata: per velocizzare la costruzione degli edifici, si facevano inviare colonne e capitelli già pronti e realizzati negli atelier e nelle officine dei fabbri vicine alle cave di marmo.
Ovviamente, non poteva mancare una sezione dedicata ai legami tra l’Urbe e le tradizioni catalane, nella quale la divulgatrice segnala come alcuni costumi siano da attribuirsi proprio agli antenati latini. Tra questi, la barretina, il tipico cappellino rosso, deriverebbe direttamente dal berretto frigio e la cipolla tenera, cotta alla brace col metodo della calçotada, non sarebbe altro che l’erede del porrus capitatus, diffuso e consumato in Pannonia a cavallo del III secolo.