Anna Zafesova per “La Stampa”
Viktor Galdobin aveva 49 anni, amava le moto, scriveva poesie, aiutava i cani randagi. Non amava Putin e la sua guerra, argomento sul quale aveva litigato con tutti, colleghi e amici, e perfino con suo padre, un ex poliziotto. È stato ucciso a pugni e calci nella sala biliardo del suo villaggio Bolshaya Martynovka, nei pressi di Rostov-sul-Don.
Gli assassini hanno trasmesso l'esecuzione in diretta su Instagram: si vedono due ragazzi picchiare un uomo che non si difende, e urlare «Gloria all'Ucraina?! Frocio, vaff..., ti piace l'Ucraina?! Prendi, c...!». Si sentono le risate e il grido di una donna «uccidilo, uccidilo, c...».
Il video ha girato nei social del Sud della Russia, ricondiviso e commentato con faccini sorridenti. I due assassini non hanno nascosto i loro nomi e nickname, ma la magistratura sta indagando su un omicidio colposo senza aggravanti: «Nel nostro villaggio non puoi dire che simpatizzi per l'Ucraina, ti ammazzano», ha raccontato un amico di Galdobin al giornale online Vyorstka, che ha rivelato la storia.
Già dopo l'uscita dell'articolo, il club di biker di cui faceva parte Galdobin ha chiesto di non menzionarlo: «Per noi il fatto che uno dei nostri membri fosse un oppositore è un insulto», ha scritto con numerosi errori di ortografia il suo direttore.
La guerra in Ucraina infuria a pochi chilometri da Rostov, ma è in corso anche dall'altra parte del confine. Il 15 agosto, un ufficiale dell'esercito russo ha usato come ultimo argomento in una discussione con un tassista contrario all'invasione una pistola, uccidendolo con quattro colpi a bruciapelo.
Pochi giorni prima, un moscovita ha accoltellato un vicino critico della guerra, per poi consegnarsi alla polizia invocando l'attenuante della «rabbia per gli insulti ai nostri militari». I casi di aggressioni, botte e denunce contro chi simpatizza per l'Ucraina (o chi viene scambiato per ucraino) sono decine, l'ultimo è di due giorni fa: uno sconosciuto ha teso un agguato all'attivista contro la guerra Mikhail Baranov, gettandogli in faccia un liquido verde. Mikhail era già stato minacciato, e sulla porta del suo appartamento era apparsa la scritta "traditore".
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Ma nel mirino non finiscono soltanto i dissidenti. Un marito moscovita ha denunciato la moglie perché «educa nostra figlia a criticare il presidente». Un intero ufficio di Pushkino ha consegnato alle autorità una collega che «simpatizza per Zelensky e racconta falsità sulle atrocità commesse dai russi contro civili ucraini». Una classe di liceali ha chiamato la polizia per la professoressa di inglese che criticava la guerra. Una donna ha chiamato la polizia per cercare l'ignoto vicino che aveva dato al suo wi-fi di casa il nome "Gloria all'Ucraina": lo aveva visto apparire sul suo telefonino, e l'ha considerato una minaccia alla sicurezza del condominio.
Una vecchietta ha attirato l'attenzione su una ragazza che lasciava volantini contro la guerra al supermercato: il guardiano del negozio non le ha prestato ascolto, ma la babushka ha insistito, e la giovane dissidente è ora in carcere e rischia di restarci per 10 anni.
IMMAGINE DAL DOCUMENTARIO LEGAMI SPEZZATI
Mogli che lasciano i mariti, genitori che denunciano i figli come «traditori della patria», fratelli che smettono di parlare con le sorelle: il documentario di Andrey Loshak "Legami spezzati" mostra una Russia che torna nella modalità della guerra civile. Mentre in Europa si discute di come sanzionare i turisti russi senza punire i dissidenti, e l'Ucraina si convince sempre di più che dall'altra parte del confine abitino soltanto complici più o meno espliciti di Putin, in Russia migliaia di persone vengono arrestate e condannate per aver manifestato e protestato contro la guerra.
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Lo Stato lancia il segnale: «La violenza verso un altro Paese autorizza anche i cittadini a usare la forza, soprattutto verso i nemici della nazione», spiega a Vyorstka il sociologo Artemiy Vvedensky, che teme un aumento della "disumanizzazione" dei russi. La repressione poliziesca sta crescendo: l'avventore di un bar crimeano è stato condannato per aver chiesto al DJ di mettere un rap ucraino (mille euro di multa, più 10 giorni di carcere al DJ), e a Omsk un uomo è stato picchiato dalla polizia per aver esibito lo stemma del tridente ucraino.
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È il "fascismo putiniano" denunciato dal dissidente solitario Viktor Galdobin, ucciso proprio da quei seguaci del presidente che riteneva «ubriaconi disperati e incattiviti», e che odiava con la stessa intensità con la quale gli ucraini odiano e disprezzano gli "orchi" russi, venuti dalla provincia profonda a uccidere e saccheggiare. È una guerra che passa su una linea generazionale, ma anche lungo la frattura storica tra popolo ed élite, con la seconda terrorizzata dal primo quanto incapace di dargli una dimensione civile, una parabola raccontata magistralmente in "Cuore di cane" di Mikhail Bulgakov, in una cultura che parla ancora di "popolo" e non di "cittadini".
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Ma mentre l'intellighenzia e la neoborghesia scelgono, per l'ennesima volta nell'ultimo secolo, tra la fuga e il conformismo, sono proprio i rappresentanti del "popolo" a sfidare il pensiero unico putinista: Galdobin era uno scaricatore che abitava in una borgata, e Pavel Filatiev, ex parà di Volgograd, che ha appena messo online "Zov", una denuncia violenta della brutalità dell'esercito russo in Ucraina, è un "orco".
Secondo le indiscrezioni che girano in rete, ad opporsi alla guerra sono più della metà dei russi, e non il 15% dei sondaggi ufficiali, ma misurare la protesta latente in una dittatura è impossibile. Non resta che seguire i segnali indiretti di una resistenza nascosta: le scritte che appaiono nella metropolitana e sui muri, l'epidemia di binari danneggiati sotto i treni che portano armi al fronte, e di commissariati militari bruciati, i soldati che si licenziano a centinaia, costringendo il regime a reclutare i detenuti.
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Il fronte interno di Putin non sono soltanto i dissidenti "agenti stranieri", passa anche dal "popolo" del quale si sentiva adorato. Del resto, già Lenin aveva teorizzato che la rivoluzione in Russia si ottiene trasformando «una guerra imperialista in una guerra civile».
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