Serena Tibaldi per “la Repubblica”
Il genio di Federico II, l'architettura esoterica di Castel del Monte, i pensieri compositi come costellazioni di Walter Benjamin, la moda vista come narrazione, e non solo come abbigliamento. La visione dello stile di Gucci secondo Alessandro Michele è articolata e complessa come nessun'altra: se ne è avuta ancora una volta la prova ieri sera, sulla passerella allestita attorno alla straordinaria struttura pugliese per la presentazione di Cosmogonia, la collezione che arriverà nei negozi il prossimo inverno.
Perché proprio Castel del Monte?
«L'ultimo défilé in trasferta l'abbiamo fatto lo scorso novembre a Los Angeles: sognavo un luogo italiano in completa antitesi con la metropoli, e Castel del Monte, con il suo essere un imbuto tra cielo e terra, lo è. Per non parlare dell'ammirazione sconfinata che ho per Federico II, che lo ha concepito».
Quand'è che si è appassionato alla sua figura?
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«Di sicuro non a scuola, quando lo avevo ignorato bellamente (ride, ndr ). L'ho scoperto quando mi sono interessato all'Alto Medio Evo: mi affascina il racconto oscurantista che si fa di quel periodo, che invece è pieno di eventi e personaggi straordinari come lui. Stiamo parlando di un uomo istruito, un fine conoscitore del mondo bizantino e della dottrina islamica, un poliglotta che aveva compreso prima di tutti che il potere è legato al sapere».
Un pensiero molto moderno.
«La sua modernità e la sua concezione della cultura sono rimarchevoli, soprattutto se relazionate a oggi, con i nostri uomini di potere che a stento sanno coniugare il verbo essere. Credo che Federico II avesse bisogno di molto. E anche io sono un uomo che ha bisogno di molto. Di molto sapere».
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Faccia un esempio.
«Per esempio, ho chiesto al mio team di fare una ricerca sulle gorgiere, i grandi colletti rotondi pieghettati del 1600: i ragazzi sono impazziti, ma così ne hanno capito lo scopo, le tecniche per realizzarle, le varianti. La moda è una specie di Alice nel Paese delle Meraviglie che ti trasporta dove meno te lo aspetti».
È questo il tipo di collegamento a cui si riferisce quando, nelle note alla sfilata, parla di Walter Benjamin e del suo ragionare "per costellazioni", unendo citazioni diverse?
«Sì. La moda oggi è un incontro di storie e di mondi: riguarda troppo i corpi delle persone e il presente per potersi limitare, con rispetto parlando, a come cade un tessuto. Io non sono un couturier , che ragiona sul singolo, ma un direttore creativo che lavora sull'immaginario di un marchio. Sono un anfibio».
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In che senso?
«Come gli anfibi vivono tra acqua e terra, così la mia generazione ha vissuto tra due concezioni di moda. Io mi sono formato nel "mondo vecchio", e dunque so tutto di confezione e pelletteria, la base di questo lavoro quando io ho iniziato.
Però so anche gestire la narrativa stilistica come fossi un regista, tenendo allo stesso tempo da conto l'aspetto finanziario. Che è quello che si chiede oggi a chi fa il mio mestiere».
Lei ha fatto molto per promuovere un ideale di bellezza lontano dai classici standard.
«Il vestito ci aiuta a essere chi vogliamo, il fisico non può essere un ostacolo. Ho voluto molti tipi diversi di persone in sfilata proprio per questo, di certo non per stupire. È una necessità che sento sempre di più con l'età: oggi non ha più senso limitarsi ai soliti cliché estetici, e infatti noto in tutto il settore questa voglia di "aprire le finestre" per far passare aria nuova. Ne sono contento: io sono uno molto diligente, ma sono anche un anarchico».
Ha esordito alla guida di Gucci nel 2015: cosa la entusiasma ancora del suo lavoro? «Questione di passione. Mi piace il mio lavoro, amo obbligare gli altri a vedere cose che, altrimenti, non vedrebbero. È quello che pratico da quando sono ragazzino e mi rifiutavo di adeguarmi ai canoni imposti dalla società. Sono sempre stato libero, ed è questa libertà che mi spinge ad andare avanti, anche con grande fatica».
Parlando di moda e realtà, com' è stato lavorare in questi mesi guardando a quello che accade in Ucraina?
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«Io con la realtà mi ci confronto sempre, ma sono come un falegname che non può smettere di intagliare le gambe dei tavoli. Nessuno di noi si può fermare: il nostro lavoro è una celebrazione della vita. Io vedo tutto questo - le collezioni, gli abiti, le sfilate - come le nostre offerte di bellezza contro la violenza e la morte».
Sono arrivati per lo show anche i Måneskin, che sono stati pure testimonial di Gucci.
«Il nostro è stato una specie di incontro combinato, come quando un amico ti dice che conosce una persona perfetta per te. E in effetti, ci siamo subito capiti. Abbiamo uno scambio continuo, ma il loro stile funziona perché è autentico. I vestiti con loro si incendiano: per me, che sognavo di fare il costumista, è una gioia lavorare con artisti così».
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