Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera”
L'hanno sorvegliato e seguito fino alle sue ultime ore di libertà, fino al giorno della sua scomparsa. Con una pressione tale da trasformarsi in fondati sospetti. E adesso tutti gli indizi a carico di almeno cinque uomini degli apparati di sicurezza egiziani per il sequestro e l'omicidio di Giulio Regeni sono a disposizione degli inquirenti del Cairo.
Se le dichiarazioni d'intenti hanno un senso, e se davvero c'è la volontà di dare seguito ai proclami per arrivare a «identificare i responsabili» dell' uccisione del giovane ricercatore friulano sparito nella capitale egiziana il 25 gennaio 2016 e ritrovato cadavere il 2 febbraio, lo si capirà dalle prossime mosse della magistratura locale.
Quella di Roma ha fatto tutto ciò che era nelle sue possibilità con il materiale messo a disposizione dall' Egitto, anche se adesso n'è aggiunto altro; ora però tocca agli egiziani dimostrare di volersi muovere nei confronti degli indiziati. Anche attraverso una sorta di co-gestione dell' inchiesta proposta dai colleghi italiani.
Ancora ieri la collaborazione tra i due uffici giudiziari è stata ribadita nell' incontro che s'è svolto al Cairo tra il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e il suo sostituto, Sergio Colaiocco, con il procuratore della Repubblica araba d' Egitto Nabel Sadek.
Una riunione concordata dopo il lavorio politico-diplomatico delle scorse settimane, per procedere a un ulteriore scambio di informazioni e di atti, di cui ha dato conto uno scarno ma significativo comunicato congiunto. Non una semplice formalità, dal momento che entrambe le parti hanno sottolineato l'importanza di quanto messo a disposizione dell'altra.
Gli egiziani hanno «presentato le trascrizioni e i documenti su nuovi elementi dell'indagine», che ora saranno esaminati dagli inquirenti italiani; in particolare le dichiarazioni dell'ultimo poliziotto individuato, e di cui da Roma era stato chiesto l'interrogatorio. Pignatone e Colaiocco, invece, hanno consegnato l' informativa che riassume il lavoro svolto dai poliziotti del Servizio centrale operativo e dai carabinieri del Ros sugli atti già messi a disposizione degli egiziani.
Una «articolata e attenta ricostruzione dei fatti» resa possibile - soprattutto - dall' incrocio tra testimonianze e tabulati telefonici, dalla quale emergono elementi a carico di dieci appartenenti alla polizia locale e alla National security in due episodi chiavi della vicenda Regeni: da un lato la sparizione, avvenuta il 25 gennaio 2016 al Cairo; dall'altro il depistaggio per attribuirne la responsabilità a una banda di banditi comuni uccisi dalle forze di sicurezza.
Del primo gruppo, indiziato del rapimento del ricercatore friulano, fanno parte il maggiore Magdi Ibrqaim Abdlaal Sharif, il capitano Osan Helmy, e altre tre persone; del secondo il colonnello Mahmud Handy e altri quattro.
Sharif è il militare che teneva i contatti con l' ex capo del sindacato autonomo dei venditori ambulanti Mohammed Abdallah, il quale aveva intrecciato i rapporti con Regeni per la sua ricerca sul campo e di fatto l' ha «venduto» agli apparati egiziani attraverso una denuncia sfociata in controlli sempre più serrati. Da Sharif e dal suo ufficio, Abdallah ricevette l' apparecchiatura per registrare il colloquio con Giulio del 6 gennaio 2016, nel quale si discuteva del finanziamento che il ricercatore italiano s' era impegnato a sollecitare, prima di scoprire che l' uomo voleva i soldi per sé.
L'obitorio dove si trova la salma di Giulio Regeni
Dopo quell' incontro, i contatti tra Abdallah e Sharif sono proseguiti, ed è determinante - nella ricostruzione degli investigatori - ciò che il maggiore fece comprendere al sindacalista quando questi lo avvisò di aver fissato un nuovo appuntamento con Giulio per il 26 gennaio: «Da come mi parlò, ho capito che i controlli su Giulio sarebbero proseguiti nei giorni successivi, fino al 25 gennaio», ha detto Abdallah agli inquirenti. Cioè il giorno del sequestro.
Quasi un'accusa diretta: quando è scomparso, il ricercatore era pedinato dagli uomini di Sharif, ed è difficile immaginare che in una città presidiata dalle forze dell' ordine altri potessero inserirsi nella rete che gli era stata costruita intorno e portarlo via.
Il ragionamento logico, secondo gli investigatori italiani, è confermato dai tabulati telefonici di Sharif, Helmy e gli altri tre sospettati di aver preso parte alla sorveglianza di Giulio, e ora al suo rapimento, a cui seguirono le torture e la morte. Poi ci sono i contatti tra gli appartenenti al gruppo accusato del depistaggio, e le tracce di colloqui tra entrambe i gruppi con altri ufficiali della Sicurezza. Ora tocca agli egiziani procedere, con il supporto della magistratura italiana confermato ieri da Pignatone.