Matteo Persivale per il "Corriere della Sera"
Margaret Atwood, 81 anni, canadese, due premi Booker, premio Arthur C. Clarke Award e premio Franz Kafka, premio alla carriera dei National Book Critics e del Pen Center Usa, è la scrittrice che con Il racconto dell'ancella (dal romanzo anche un film e una fortunatissima serie tv) ha immaginato un mondo distopico in cui la Repubblica di Gilead riduce in schiavitù le donne relegandole a mere procreatrici (quelle incapaci di procreare per motivi fisici o anagrafici vengono eliminate).
Atwood è su Twitter, non il posto ideale per una discussione serena (in 280 caratteri) su temi delicatissimi, tra i quali l'identità di genere, l'inclusività, la transfobia, gli aspetti biologici della transizione: se n'è accorta sicuramente ieri, avendo incassato commenti negativi, critiche, e anche insulti per aver twittato (ai suoi 2 milioni di follower) senza commenti il link a un articolo di giornale ( il Toronto Star ) dal titolo «Perché non possiamo più dire "donna"?». Secondo l'autrice, Rosie DiManno, il termine «donna» sarebbe «a rischio di diventare una parolaccia» e potrebbe alla fine essere «sradicato dal vocabolario medico e cancellato dalla conversazione».
Critica quella che le sembra una «infelice evoluzione del linguaggio» e «l'attivismo trans impazzito», ma garantisce che l'articolo non rappresenta «una tesi contro l'autoidentificazione di genere» e che sostiene la causa dell'uguaglianza Lgbtq. DiMannio cita esempi come la Aclu, associazione pro-diritti civili americana, che per motivi di inclusività ha cambiato le parole della giudice Ruth Bader Ginsburg sostituendo «donna» con «persona», la British Medical Association che ha raccomandato al personale di utilizzare «persone incinte», invece di «donne incinte», e l'ospedale britannico che ha ordinato al personale del reparto maternità di utilizzare «persone che partoriscono», invece di «donne incinte».
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