Andrea Galli per milano.corriere.it
Di Alberto Boni, 64 anni, milanese, la vittima, dissero che era spregiudicato ma del resto lavorava come broker: muoveva soldi, tantissimi soldi. Forse troppi.
Di Katharina Opavska, che oggi ha 66 anni ed è nata nell’allora Cecoslovacchia, scrissero che era la sua amante nonché la classica «Mantide» d’una storia di sesso, appunto denaro e morte essendo stata arrestata per complicità nell’omicidio del gennaio 2000.
Alberto boni e Katharina Opavska
Undici anni di carcere in un’inchiesta forse germogliata male e proseguita peggio perché gli investigatori mai hanno individuato i (presunti) alleati della donna, ovvero gli esecutori oppure co-esecutori materiali dell’assassinio; perché sulla scena del crimine rimasero misteri irrisolti; perché Katharina da subito consigliò, inascoltata, di esplorare la famiglia di Boni e la sua cerchia di collaboratori, mentre di rimando i parenti del broker mai hanno avuto dubbi.
Lei, soltanto lei: la «Mantide». Ma può aver avviato in solitaria e in solitaria concluso, una donna di cinquanta chili scarsi, in Francia da poco e che non parlava il francese, un tale diabolico, muscolare e letale piano?
L'ultima sera
Queste di Roquebrune Cap Martin, dopo Mentone, in Costa Azzurra, dove viveva la coppia («Ero la sua unica donna, non l’amante»), sono terre pacifiche che ospitano una principale narrazione: i migranti che da Ventimiglia provano a superare il confine. Quest’altra narrazione, invece, ma lo stesso succede a Milano, non ha registrato interesse e di conseguenza clamore, quasi che sia un fatto concluso. Non sarebbe così, e andiamo a conoscerne i motivi, anche con le nuove parole di Katharina.
Dunque gennaio 2000. La notte tra il 21 e il 22. In fondo a una scarpata in località Gorbio, sulla cartina sopra Roquebrune Cap Martin, brucia la Subaru targata AX909BX. Dentro, un corpo carbonizzato. Boni. La macchina è la sua. Ha lasciato Milano con destinazione la Francia e Katharina, che rientra da un pomeriggio alle terme dell’«Hotel de Paris» di Montecarlo.
Ebbene la scarpata, come da misurazione degli agenti di Nizza del capitano Jean-Luce Sice, è a 17 metri sotto il livello della strada. La discesa, per tacere della risalita, impegna e richiede tempo. Siccome fu esclusa un’auto-combustione, il fuoco venne appiccato. La zona non è piena di traffico, anzi, ma nemmeno isolata; parecchie le curve, bisogna guidare piano.
Difficile pensare che qualcuno abbia rischiato di calarsi (peraltro con la possibilità di cadere), di avvicinarsi alla Subaru, di innescare il rogo e compiere il percorso inverso obbligato alla lentezza, con le annesse insidie d’essere visto. Sicché si ipotizzò il lancio di una bottiglia molotov (possibile con quella precisione?). Un testimone mise a verbale d’aver scorto un’ombra che eseguiva proprio l’azione del lancio di un oggetto.
La donna col caschetto
Testimoni. Un altro disse d’aver notato, in precedenza rispetto all’uscita di strada, Boni insieme a due uomini e una donna con capelli a caschetto color castano. Katharina era bionda. Ma Katharina non negò la presenza di questi individui che in ogni modo le erano ignoti. Quando s’incontrò con Boni, costui la accompagnò a un incontro che il broker non poteva evitare.
«Cose di affari. Avveniva di frequente. Quei due, alti, erano italiani». Uno schiaffeggiò in volto la donna ordinandole di rincasare. Boni non si oppose. Katharina camminò verso l’abitazione. Andò a dormire. «Ero abituata ai suoi ritardi, non mi preoccupai affatto». Quanto agli uomini, erano sospetti ma «Alberto incrociava un’infinità di individui, e insomma...».
I farmaci-bomba
A sentire la versione di Katharina, che veniva da due matrimoni falliti durante la permanenza in Germania, «Alberto aveva un’assicurazione sulla vita di 7 milioni di marchi tedeschi». Le spettava un milione. A sentire i figli del broker, «papà aveva sentimenti contrastanti a causa della reticenza sul passato della donna». Rimaniamo sui figli. Al magazine del Corriere «Sette» la figlia Laura aveva consegnato un memoriale. Il 21 gennaio, venerdì: «Non sento papà ma so da amici che è andato a Mentone. È partito con la Subaru alle 17».
Dalla famiglia non vi fu menzione dei farmaci assunti da Boni. Il medico legale isolò l’ingerimento, due ore prima di esser ammazzato, di Lorazepam, un potente ansiolitico che addormenta. Il medicinale potrebbe aver generato il colpo di sonno causa dello sbandamento della Subaru. D’accordo. Ma il rogo? Nell’impianto accusatorio accolto con la condanna di Katharina, i killer stordirono Boni coi medicinali, inscenarono l’incidente, appiccarono l’incendio. Movente? Quei soldi dell’assicurazione sulla vita.
«Ho perso tutto»
Gli accertamenti patrimoniali non hanno svelato «strani» movimenti collegabili a Katharina. Che dice: «Vivo della pensione. Ho pagato colpe non commesse. Ho perso undici anni di vita. Mi hanno tolto tutto a cominciare dalla libertà. La casa di Roquebrune? Me l’hanno levata. Questo è un caso chiuso troppo presto. Ma non è finita. È un mio pensiero fisso, ogni giorno. Gli assassini sono liberi da ventidue anni. E non mi andrà via la paura che qualcuno preferisca zittirmi. Chi ama la verità deve riaprire il caso».