Francesco La Licata per “la Stampa”
Le quasi tremila pagine con cui la Corte d'assise d'appello di Palermo motiva la sentenza di assoluzione per gli ufficiali del Ros (Reparto speciale dei carabinieri) e per il politico Marcello Dell'Utri sono state accolte con molta freddezza (tranne qualche eccezione) dai media e dalle segreterie dei partiti, impegnate nell'insolita campagna elettorale estiva. Eppure quelle pagine, certamente molto «scandalose», meriterebbero una più attenta considerazione, perché contengono molti spunti di riflessione che dovrebbero interessare soprattutto le forze politiche che si accingono a candidarsi alla guida del Paese.
Pagine scandalose, certamente. E non perché si voglia mettere in discussione il succo di una sentenza che sembra logica rispetto a quanto il processo ha potuto accertare. Lo scandalo, se così si può dire, non consiste nelle assoluzioni, ma nel «quadro generale» che i giudici hanno offerto nel tentativo di spiegare il perché delle loro conclusioni.
Già, perché ciò che viene sancito in sentenza è che uno Stato moderno e democratico - e non un manipolo di investigatori azzardosi - per fermare la furia stragista di una organizzazione criminale è dovuto venire a patti con essa attraverso una «ibrida alleanza», un accordo non esplicito, con l'ala moderata di Cosa nostra (quella di Bernardo Provenzano) fino a proteggere la latitanza di un capo lasciato libero perché potesse imporre una scelta di non aggressione allo Stato che, invece, era la linea intrapresa da Totò Riina e in attesa di prosecuzione da parte degli eredi di Totò 'u curtu, cioè Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca e i Graviano di Brancaccio.
I giudici parlano apertamente di «patto» con la «corrente più moderata di Cosa nostra». E leggendo queste righe non si può fare a meno di pensare come la mafia, quella del '92, '93 e '94, fosse diventata una specie di «Stato alternativo» a quello legale e costituzionale. Tanto da indurre le autorità costituite a mettere in atto azioni simili alle operazioni di geopolitica nelle guerre in corso.
In sostanza, dicono i giudici, la Trattativa ci fu, ma non per decisione dei singoli investigatori quanto per scelte istituzionali che avallarono vere e proprie «operazioni di intelligence». Solo che a guidare l'azzardo erano agenti di polizia giudiziaria che avrebbero dovuto sottostare alle regole del codice senza fughe in avanti in un terreno privo di regole di ingaggio, comportandosi, alla fine, come un servizio segreto. E quando «agganciano» don Vito Ciancimino (mediatore col «consenso» di Totò Riina) sfuggono a ogni controllo, tanto da essere redarguiti oggi dai giudici che definiscono l'operazione una «improvvida iniziativa».
E qui il pensiero va al giovane Massimo Ciancimino, prima portato sugli altari e poi abbandonato al proprio destino e massacrato giudiziariamente, pur avendo dato un buon contributo sulle vicende oggi scandagliate dai giudici di appello. Certo, la Trattativa ci fu e riuscì pure a fermare la deriva stragista di Cosa nostra, ma fu portata avanti per la «salvaguardia dell'incolumità della collettività nazionale e di tutela di un interesse generale e fondamentale dello Stato».
Mentre la mancata perquisizione al covo di via Bernini (la casa di Totò Riina) e i diversi episodi di mancata cattura di Bernardo Provenzano erano segnali di amicizia, propedeutici a fare cessare le stragi sanguinose. Tutto definito dai giudici «sconcertante», ma perfettamente inquadrabile nella logica di «indicibili ragioni di interesse nazionale a non sconvolgere gli equilibri di potere interni a Cosa nostra».
Ma allora ci sarebbe da chiedersi se, una volta superata la punta più alta della crisi con la strategia del dialogo, non fosse stato indefettibile un intervento veloce e definitivo che estirpasse alle radici le mafie ben radicate nelle quattro regioni del nostro Meridione, anche per evitare di dover ricorrere ad altre trattative in futuro. E invece continuiamo a scrivere e leggere della geometrica potenza della 'ndrangheta, capace di muovere miliardi di cocaina poi reinvestiti in imprese per la realizzazione di opere pubbliche.
Ecco, i soldi. Anche di questo aspetto si occupa la sentenza che smentisce la tesi che Paolo Borsellino sia stato ucciso perché costituiva un impedimento allo svolgersi della Trattativa. Ipotizzano i giudici di Palermo che la decisione di uccidere il giudice fu presa con grande fretta, come se fosse sopraggiunto qualcosa che andava fermato subito.
Questo qualcosa, sospetta la corte d'appello, era l'interesse di Borsellino per il «rapporto su mafia e appalti» frettolosamente chiuso dalla Procura di Palermo diretta da Pietro Giammanco e ripreso da Falcone e Borsellino. Una inchiesta esplosiva che ha fatto dire all'ex giudice Antonio Di Pietro che «la Tangentopoli prima di noi l'avevano scoperta i magistrati di Palermo e in particolare Giovanni Falcone».
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Lo stesso Falcone che si era sovraesposto parecchio su questi temi, fino a dichiarare pubblicamente, riferendosi alle indagini sulla Calcestruzzo di Gardini: «La mafia è entrata in Borsa». Da qui la fretta di eliminare Borsellino, l'unico in grado di proseguire quella inchiesta che avrebbe attraversato il sistema di potere politico-imprenditoriale di tutta l'Italia. Riina convoca una riunione della cupola per mettere in cantiere via D'Amelio e dimostra grande fretta.
Lo confermerà nel 2013, quando scambia confidenze col detenuto con cui «fa socialità» e gli dice che la strage Borsellino non fu come l'altra, «fu un fatto studiato alla giornata». Ma anche il rapporto sugli appalti è rimasto seppellito per decenni. D'altra parte i depistaggi e le indagini a vuoto sono espedienti adoperati non tanto per cancellare la storia dei fatti accaduti quanto per ritardarne il più possibile il valore processuale.
Oggi l'inchiesta è stata riaperta a Caltanissetta e c'è da aspettarsi il solito «trattamento»: anni di ricerche di prove su fatti avvenuti negli Ottanta, immancabili polemiche, scontri fra garantisti e manettari, insomma la via crucis che va in scena da sempre. Speriamo, soprattutto, ci sia risparmiata un'altra Trattativa, lo dobbiamo principalmente ai familiari delle vittime di precedenti «improvvide iniziative».
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