Luigi Ippolito per www.corriere.it
Brexit uguale porte sbarrate? Tutto al contrario: in Gran Bretagna è boom dell’immigrazione, che ha toccato livelli ben superiori a quelli precedenti il referendum del 2016 per l’uscita dalla Ue. Solo che è cambiato tutto: non più europei a basso costo, ma asiatici e africani qualificati. Insomma, fuori i baristi italiani, dentro gli ingegneri indiani.
I numeri non lasciano dubbi: l’anno scorso Londra ha concesso oltre 840 mila visti di ingresso, con un balzo di oltre il 50 per cento rispetto all’epoca pre-Brexit.
Ma gli europei, per i quali è finita la libera circolazione, sono stati appena poco più di 50 mila: un crollo ampiamente compensato però dagli arrivi extra-Ue, cui sono stati concessi 210 mila visti di lavoro (rispetto ai 163 mila del 2016), oltre a 416 mila visti di studio (rispetto ai 294 mila del 2016) e 165 mila visti di altro genere (rispetto ai 53 mila del 2016).
Impressionante soprattutto la crescita degli studenti afro-asiatici: i nigeriani sono aumentati del 415 per cento, i pachistani del 256 e gli indiani del 164. Dall’altro lato, gli arrivi europei in generale erano già scesi dai 249 mila nel 2016 ai 198 mila nel 2019: e sono poi crollati con la pandemia.
È un quando complessivo che appare in totale controtendenza con la narrativa della Brexit, che è stata letta soprattutto come una reazione all’immigrazione incontrollata.
In realtà, il governo di Boris Johnson si è ben guardato dal serrare le frontiere: ha solo spostato l’accento, chiudendo il rubinetto degli europei a bassa qualifica e aprendo le porte ai talenti di tutto il mondo.
Gli effetti pratici si vedono: hotel, bar e ristoranti, che finora facevano affidamento su giovani italiani, spagnoli o greci, faticano a trovare personale (e a servire ai tavoli cominciano a spuntare ragazze e ragazzi inglesi, cosa finora mai vista). Ma a fare un giro nelle residenze studentesche di Londra, si incontrano a stento giovani europei.
Il nuovo sistema di immigrazione «a punti» privilegia infatti gli arrivi qualificati da tutto il mondo, ossia chi ha titoli di studio o contratti di lavoro ben retribuiti: se dopo la crisi finanziaria del 2008 la Gran Bretagna era diventata il datore di lavoro di ultima istanza per la manodopera europea dequalificata, ora Londra punta a mettere il turbo a una economia della conoscenza ad alto valore aggiunto.
E l’opinione pubblica? I sondaggi indicano che ha un atteggiamento molto più rilassato del passato rispetto all’immigrazione: i commentatori britannici sottolineano che il problema non è tanto il numero degli arrivi, quanto la sensazione che ci sia un controllo dei flussi di ingresso. E infatti lo slogan della Brexit era stato proprio «riprendere il controllo»: che non ha significato chiudersi al mondo, ma aprirsi in maniera diversa.
Johnson inoltre è furbo a manovrare la questione: fa la faccia dura con gli immigrati illegali, annunciando un piano per spedirli in Ruanda in modo da coprirsi il fianco a destra, ma poi si guarda bene dal soffocare l’economia cedendo alle sirene autarchiche. D’altra parte la Brexit, nelle intenzioni dei suoi promotori — Boris in testa — non significava certo alzare il ponte levatoio, ma anzi uscire dalla «gabbia» europea per lanciarsi nella competizione globale.
Il cambio di passo dell’immigrazione a Londra, col boom degli extra-europei, significa anche che la Gran Bretagna sarà ancora più multi-etnica e meno bianca di quanto già non sia: una ricchezza e una diversità che sono un ulteriore vantaggio nella competizione del XXI secolo.
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