Estratto dell'articolo di Claudio Plazzotta per "Italia Oggi"
Nella scalata al monte Everest, alto 8849 metri, a un certo punto si entra nella cosiddetta «zona della morte», dopo i 7600 metri, quando l’ossigeno presente nell’aria è sempre più rarefatto, in percentuali attorno al 20-30% rispetto a quelle dell’aria a livello del mare. Ed è in quella zona che si muore. Si calcola che qui già 300 persone abbiano perso la vita negli ultimi 100 anni, quasi tutte dopo aver raggiunto la vetta e nel tentativo di rientrare al campo base: imprevisti, maltempo, stanchezza li hanno costretti a sostare per troppo tempo in quell’area.
Dove, senza bombole di ossigeno, non si resiste. La cosa impressionante è che i corpi di oltre 200 scalatori sono ancora lì, ghiacciati per l’eternità, in quell’immenso cimitero a cielo aperto. Alcuni, per anni, sono diventati addirittura dei segnali lungo il percorso, alla stregua di cippi per indicare quanto mancasse alla cima. Il più famoso è il cadavere di «Green boots», quegli scarponi verde fosforescente di uno scalatore indiano morto nel 1996 e rimasto lì, a quota 8.500 metri, rannicchiato nei pressi di una caverna fino al 2014.
Caverna nella quale circa l’80% degli scalatori ha continuato comunque a fermarsi negli anni, nonostante Green boots, per uno stop prima di attaccare le ultime centinaia di metri che li separavano dalla vetta. Lo aveva fatto anche l’inglese David Sharp, nel 2006, morendo però lì, vicino alla grotta, congelato, nell’indifferenza degli altri scalatori, che lo considerarono per mesi alla stregua di un pezzo di arredamento di quel selvaggio paesaggio, per essere recuperato, su pressione dei parenti, solo un anno dopo. Il più antico corpo ghiacciato è quello del britannico George Mallory, deceduto a 38 anni non lontano dalla vetta nel 1924 e scoperto solo nel 1999.
Non si sa se avesse già raggiunto la cima: in quel caso sarebbe stato il primo, poiché l’Everest venne ufficialmente conquistato solo nel 1953 da Edmund Hillary e Tenzing Norgay. La tedesca Hannelore Schmatz, morta nel 1979 dopo aver assaporato il piacere della vetta, è ormai un punto di riferimento per gli scalatori, seduta sul ghiaccio e completamente ibernata, destinata a essere per sempre una sorta di cartello stradale dell’Everest dopo che molti scalatori sono deceduti nel tentativo di recuperarne il corpo. [...]
Molto dipende poi anche dalle volontà espresse prima di partire dallo scalatore, poiché in tanti preferiscono restare per l’eternità sulla loro adorata montagna. C’è una sorta di ritualità crudele, che accomuna scalatori e marinai, nel seppellire i loro poveri resti dentro l’elemento che più hanno amato, sia esso mare, ghiaccio o roccia.
[...] Uno strazio per le famiglie: come nel caso della scalatrice statunitense Francys Distefano-Arsentiev, morta sull’Everest nel 1998, e diventata famosa in rete col nickname di «Sleeping Beauty». Suo figlio, Paul Distefano, più di una volta ha denunciato pubblicamente la sofferenza nel vedere online le foto del corpo della sua mamma inchiodato per sempre in quel mondo di freddo e di neve. Impressionanti pure i filmati di scalatori che, durante tempeste di vento, devono quasi schivare le salme ghiacciate che scivolano lungo la china dell’Everest sospinte a valle dalle raffiche. Visione terrificante di una natura implacabile che respinge gli umani fuori da territori inviolabili.
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