Massimo Lugli per il Venerdì-la Repubblica
antonio del greco canaro magliana
«Per me nun è stato lui. Gli sbirri l' hanno fatto confessà a forza de' sberle. Io lo conoscevo bene e conoscevo pure quell' artro. Ma chi ce crede?». Antonio Del Greco alza le spalle e sospira sconcertato davanti a questa saracinesca chiusa e arrugginita di via Magliana 253 L, l' ingresso della "bottega degli orrori" dove, il 18 febbraio del 1988, Pietro De Negri, di professione toelettatore per cani, fece letteralmente, lentamente, sapientemente a pezzi l' amico-padrone che lo tormentava da anni, Giancarlo Ricci, detto er pugile.
Tragedia da grand guignol passata alla storia come quella del "Canaro della Magliana", ora rievocata da Matteo Garrone nel film Dogman, che sarà presentato al festival di Cannes, e in un romanzo, IlCanaro della Magliana, che ho scritto con Antonio Del Greco.
È proprio con Del Greco che torno in questo quartiere trent' anni dopo. È lui lo sbirro che arrestò De Negri e lo fece confessare. Non a forza de' sberle, ma con blandizie, ricatti, derisione, sfide psicologiche in cui i poliziotti di allora erano maestri. Siamo tornati a rivisitare gli stessi luoghi che i cronisti d' allora dragarono, sondarono, scoprirono e descrissero a tinte forti per giorni interi e che ancora oggi restituiscono sensazioni gattopardesche, o una massima taoista: tutto cambia, niente cambia.
Ci sono orrori che sorprendono per la loro atrocità e non si cancellano neppure a distanza di tempo. Anche Del Greco confessa che all' inizio non riusciva a credere a quello che era successo. Ma a Roma tutto può accadere, specie nei suoi angoli più dimenticati. Lo scenario è un quartiere, la Magliana, costruito negli anni 60 da palazzinari senza scrupoli sotto il livello del fiume: inondazioni dopo ogni pioggia e torme di ratti in libertà. Una popolazione ufficiale di seimila abitanti e un florilegio di imprese piccole e grandi, una babele di dialetti imbastarditi e lingue d' oltremare. Un' area che merita la palma dell' abbandono anche se piazzale della Radio è a due passi. Siamo nel Quindicesimo municipio della capitale d' Italia, ma potresti essere in una qualsiasi città del cosiddetto Terzo mondo, almeno per quanto riguarda la presenza delle istituzioni. Qui si vive al limite. Per tanti che ogni giorno vanno a lavorare ce ne sono molti che invece vanno a rubare.
Oggi, accanto all' ex ingresso del negozio di De Negri c' è un' altra saracinesca abbassata: quella della sede di Forza Nuova che qui, come in molte periferie capitoline, raccoglie consensi e mostra i muscoli. Da un manifesto in pieno stile Minculpop si affaccia una puerpera felice con la scritta: «L' Italia ha bisogno di più bambini, non di coppie gay e immigrati». Il proprietario cingalese del piccolo supermarket a due metri di distanza e Italo, 76 anni, trasferitosi qui da Monteverde negli anni Settanta, si guardano in cagnesco.
Il melting pot di lingue, culture e religioni che molti rifiutano e pochi accolgono ha cambiato completamente l' anima della Magliana. Le bancarelle sui marciapiedi diffondono musica araba, odori di kebab e spezie. Nei call center c' è chi è in attesa di nostalgiche chiamate intercontinentali. E poi c' è la lunga teoria di ipermercati, supermercati e sale giochi con facce di ogni colore. Per il resto, stesso sfondo di sei lustri fa: i rettangoli rosso cupo dei palazzoni di edilizia economica e popolare che sembrano fatti col Lego, la selva di antenne paraboliche, le grate a ogni finestra, le ringhiere arrugginite, i panni stesi ai balconi, i pensionati in panchina con l' aria desolata delle canzoni di De Andrè. Il traffico spaventoso, eterno, asfissiante a qualsiasi ora del giorno e della notte.
La Magliana. Il quartiere che ha dato il nome alla gang più celebrata e raccontata della mala romana, anche se nessuno dei boss ci ha mai abitato e pochissimi l' hanno frequentata. Come molti posti maledetti, anche la bottega di De Negri ha avuto una storia tormentata. «C' è stato un alimentari, poi una scuola di fotografia ma alla fine hanno chiuso pure loro», dice allargando le braccia la titolare sudamericana della stireria che è lì a poca distanza e che della truce storia del Canaro ricorda solo i servizi dell' epoca in tivù.
Dall' altro lato della strada, quello che si affaccia su via dell' Impruneta, c' era la piccola saracinesca da cui De Negri fece passare il corpo straziato di Ricci per poi caricarlo nel bagagliaio dell' auto e bruciarlo in una discarica di via Giuseppe Belluzzo, dove c' è la ferrovia locale che segna il confine tra due mondi diversissimi: Magliana e Portuense.
Anche qui, saracinesche abbassate da tempo immemorabile. È alzata, invece, quella di Marco, 55 anni, calzolaio che c' era allora e c' è ancora. Oggi ha l' occasione di togliersi un dubbio: sa chi è Antonio Del Greco, ne ricorda i baffoni scuri nelle foto in bianco e nero pubblicate su tutti i quotidiani, mentre si trascinava dietro un De Negri rassegnato e sconfitto: «A dottó, ma come mai quel giorno hanno sentito tutti gli inquilini, tutti i negozianti e a me nun me s' è filato nessuno?». All' ex funzionario di polizia tocca un' altra scrollata di spalle: succede quando un caso è già risolto con tanto di confessione - che si rivelerà poco veritiera come si scoprirà dopo l' autopsia e il processo (condanna a 24 anni, uscì dal carcere nel 2005 dopo averne scontati 16). Perché er Canaro c' era andato giù pesante con la fantasia, inventando dettagli truculenti, forse per dar sfogo alle sue fantasie di vendetta. Ad esempio, la famosa frase «Gli ho lavato il cervello con lo shampoo dei cani» non trovò alcun riscontro, così come si scoprì che gran parte delle mutilazioni vennero inflitte alla vittima dopo la morte. Ancora: l' agonia di Giancarlo Ricci non durò sette ore ma meno di quaranta minuti, almeno secondo i periti. De Negri s' inventò pure che quel giorno ebbe il tempo, tra una tortura e l' altra, di andare a prendere la figlia a scuola. Altra bugia visto che a farlo fu l' ex moglie - per inciso: è tornata a vivere con il Canaro, a quanto se ne sa felicemente.
E la vittima? Chi ci pensa più? Il rapporto tra Ricci e De Negri era un manuale di psicopatologia e sembra uscito da uno dei più cupi racconti di Edgar Allan Poe, La botte di Amontillado. Er Pugile è uno sbruffone. È bello, violento, sfrontato, prepotente. Tormenta, umilia, perseguita l' amico troppo remissivo, troppo fedele, succube. Non sa che sta alimentando un mostro, lo stesso che di lì a poco gli darà una morte atroce.
Non è stato sempre così. Una foto del 1982 mostra Ricci in perfetta forma ai campionati italiani di pugilato, prima che l' eroina e la strada lo trasformassero in un teppista di borgata inviso a molti nonostante l' assistenza e le cure di una famiglia unita e premurosa. Inviso al punto che, dopo il suo omicidio, sui muri di via Vajano, vicino alla cooperativa antidroga, comparve una scritta emblematica: «A Canaro sei tutti noi». Ancora oggi un pensionato in coppola e bastone esprime lo stesso concetto con disinvolto cinismo borgataro.
il canaro della magliana arrestato
«Ha fatto bene. Er Pugile andava in palestra da Bruno, le pijava de brutto, sortiva e se sfogava coi negri Mica solo con loro, però, menava a tutti. Una volta j' hanno fatto scoppià le gambe ma nun j' era bastato. Ce voleva Er Canaro, ce l' ha tolto de torno a tutti». Amen.
La palestra del maestro Bruno era l' unico centro sportivo e ritrovo della zona.
Oggi al suo posto c' è uno smorzo (dove si vendono materiali edili). Poco distante un giardinetto d' erba rachitica, colmo di cartacce, cicche e escrementi, tipico arredo urbano delle periferie abbandonate dove il verde è quasi più triste del cemento.
Un impiegato di Tecnocasa vestito di tutto punto descrive la lenta metamorfosi del quartiere. «Prima il problema erano i coatti, i barabba.
Sempre incazzosi, in cerca di una rissa. Sbagliavi una parola o una manovra in auto e giù botte. Oggi se le danno tra immigrati, o con i razzisti che non li vogliono. Con quelli di Forza Nuova era una scazzottata continua. Poi li hanno mandati via perché non pagavano l' affitto, meno male».
Torniamo alla notte degli orrori. Er Canaro avvolge in un sacco quello che resta di Ricci, lo carica nella sua station wagon e percorre via della Magliana. Fa un lungo giro che lambisce la ferrovia, per arrivare a una discarica dove butta il corpo e gli dà fuoco. Poi torna a bottega per pulire tutto. E lo fa in modo così meticoloso che ci vorrà il luminol per scoprire qualche traccia di sangue. Sono gli anni di polizia in bianco e nero, la sigla Dna è sconosciuta e gli uomini della Scientifica non sono i superman in tuta bianca dei giorni nostri ma una squadretta di specialisti piena di entusiasmo e con strumenti ancora rudimentali.
Oggi per passare il confine fra la borgata e Portuense, zona di media borghesia con palazzine più basse, più pulite, meno desolanti, non c' è bisogno di fare tanta strada: basta salire su un ponte pedonale di ferro con tanto di scivolo per le bici perché, da queste parti, complice il fatto che è tutto piatto come in Emilia e la benzina costa, i pedali vanno forte. Arriviamo in via Gaetano Grugnola. Si percorre a piedi il rettilineo che chiamano "Il chilometro" fino a via Giuseppe Belluzzo. Ai lati della strada ferrata, baracchette di homeless e qualche piccolo orto di guerra.
Rifiuti e scarichi di materiale edile ai bordi della strada ma la discarica maledetta non esiste più. Di fronte la cancellata di un istituto religioso, nel punto esatto dove fu ritrovato il corpo, una sorta di sfasciacarrozze e un cancello chiuso. Sulle sbarre c' è un cartello che sembra un macabro sberleffo: «Attenti al cane».