Michela Proietti per il “Corriere della Sera”
Ci sono parole quasi scomparse e, con la sparizione, sembrano aver cancellato il vizio a cui erano associate: chi è un invidioso? Un goloso? E un lussurioso? Sulla carta, nessuno. Sul mondo digitale, tutti. I peccati capitali oggi vivono e si nutrono molto meglio nel web, che nella vita in carne e ossa. Fare sexting — scambiarsi messaggi ad alto contenuto erotico in rete — non è scabroso come ammettere di avere sempre la testa lì. Parlare di foodporn — l’adorazione feticista del cibo — non cambia la sostanza delle cose: come dei sopravvissuti a terribili carestie, non siamo mai sazi. Solo che adesso, l’abbuffata ha sembianze più eleganti e socialmente comunicabili.
Ma è soprattutto l’invidia che veleggia tra blog e social con un volto nuovo. Dare dell’invidioso a qualcuno oggi è poco politically-correct: l’accusato invoca il diritto, costituzionalmente garantito, di critica. E l’accusatore rischia di essere considerato un presuntuoso. Oltre che aggrappato a termini desueti da caccia alle streghe.
Gli invidiosi 2.0 si raggruppano in realtà sotto l’etichetta di haters, odiatori. I vendicatori del web agiscono schermati da un nickname e imperversano on line con commenti durissimi, insulti, provocazioni. Spesso le invettive, contro questo o quel personaggio, tracimano: gli haters si trasformano in capponi di Renzo, e litigano tra di loro. «Che c’è, non posso dire la mia?». «Sì, puoi, ma così sembri invidioso». «Ah ci risiamo con questa storia, ma invidioso di chi!». Copioni che si ripetono sotto i temi più diversi: il risentimento si spalma tra la figlia «di», raccomandata e neppure bella, e fatti tragici, come la morte accidentale di un imprenditore, «colpevole» di essere alla guida della sua fuoriserie.
Secondo l’Urban Dictionary l’hater «è qualcuno che non è per nulla felice del successo di un’altra persona. Non desidera essere la persona che disprezza, ma vuole solo colpirla duramente». Ma è davvero così? Nel volume «Persone che scompaiono. Vergogna e apparire» (Borla) lo psicanalista Benjamin Kilborne annota che «l’invidia gioca un ruolo importante nella difesa dalla vergogna per il difetto: piuttosto che sentire che si è noi stessi a mancare di qualcosa, ci si può sentire invidiosi di qualche altra persona che ha qualcosa che noi non abbiamo... Non sono io che manco di qualcosa, ma sei tu che hai quello che voglio».
La differenza rispetto ad altre epoche, passa attraverso il bersaglio: Madame Bovary tentava di far svaporare l’invidia verso i bei matrimoni delle altre con bagni di canfora. Patrick Bateman, protagonista di American Psycho , invidioso fino a uccidere, era concentrato sul suo rivale Paul Owen, insopportabilmente di successo.
Gli haters hanno un pubblico più ampio: si muovono fluidi tra profili Facebook e Instagram con piglio da stalker e si gettano nell’arena dei commenti con una violenza che d’estate si affila. Le ferie esasperano gli animi, le foto di vacanze belle e impossibili postate su Instagram accentuano lo scontento. «Se tutti sono in una spiaggia, ad accendere un barbecue o a guardare fuochi d’artificio e tu sei rimasto a casa, ti assale la sensazione di essere rimasto tagliato fuori», scrive il New York Times .
Le reazioni da spettatore passivo sono opposte. A volte si attorcigliano intorno a un frustrato «slacktivism», che porta a cliccare il tasto like anche quando non si vorrebbe, per il perverso meccanismo del «desiderio triangolare»: chi è amato da tutti merita di essere amato anche da noi, pur senza una ragione evidente. Se il post ha fatto il pieno di like, proprio noi vogliamo tirarci indietro (e rischiare di sembrare invidiosi)? Una buona percentuale di persone decide di «unfolloware» chi gli fa saltare i nervi a ogni post, mentre gli haters duri imboccano la catartica via dell’insulto.
Se il «troll» interveniva a gamba tesa, in modo insensato, divertendosi a disallineare le posizioni degli altri, l’hater è il portavoce di quella rivalità che sibila all’orecchio di tutti noi. «La Rochefoucauld riteneva che nell’avversa fortuna dei nostri amici c’è sempre qualcosa che non ci dispiace», ha scritto Alessandro Piperno proprio sul Corriere . Appare dunque automatico che la fortuna sfacciata dei nostri amici digitali ci infastidisca, soprattutto se esibita, a portata di clic, pronta ad aggiornarsi a ogni refresh.
Solo un anno fa, quando Mark Zuckerberg ha pensato di fornire agli utenti di Facebook lo strumento per esprimere il proprio dissenso, ha fatto un passo indietro. Il tasto «non mi piace» è stato reputato pericoloso e dunque bocciato. «Abbiamo bisogno di studiare meglio la cosa. Non vogliamo umiliare gli altri sul social network», ha spiegato Zuckerberg.
«L’invidioso ha un lato nascosto da adulatore e uno molto manifesto da imitatore. Una volta al potere, replica ciò che ha criticato, scoprendo il suo lato poco creativo e insicuro — spiega il sociologo Franco Ferrarotti, che parla di confronto antagonistico —. Non si invidia più una singola caratteristica, è un’invidia esistenziale, e la rete vive un momento incontrollabile, in cui ognuno può dire tutto ciò che gli passa in mente».
Ma difendersi è possibile. «La sovrana indifferenza è la risposta a chi cerca un ruolo attraverso l’insulto». La formula magica l’ha scritta un invidiato di rango come Dante, guardato di traverso da Cecco d’Ascoli. «A ogni attacco, ricordiamoci del verso: “segui il tuo corso e lascia dir le genti”».