Filippo Rossi per “La Stampa”
Il ponte bianco si riflette nelle acque dell'Amu Darya, lo storico fiume centro-asiatico che sancisce anche il confine fra Afghanistan e Uzbekistan. È questo il valico che nel 1989 segnò definitivamente il ritiro delle truppe sovietiche dall'Afghanistan. Oggi, la bandiera bianca taleban sventola di fianco a quella uzbeka.
Il simbolo di una vittoria sognata per anni. La vernice che rappresentava il tricolore afghano è stata grattata via da un muro delle strutture del posto di frontiera di Hairatan, primo villaggio afghano di là del fiume. Tutto è abbandonato. Nessuno controlla se non qualche mujahid taleban seduto sul prato che presidia, salutando cordialmente. Benvenuti nel nuovo Afghanistan.
Oggi, di fatto, terra di nessuno. Sulla strada che dal confine porta alla città di Mazar-i-Sharif, una delle città principali del nord ovest del paese, i taleban hanno parcheggiato veicoli blindati dell'ormai dissolto esercito nazionale afghano come simbolo di vittoria.
È l'inizio di una nuova era, positiva o negativa che sia. A due settimane dalla presa di potere, il nuovo regime non ha ancora deciso che forma di governo adottare, lasciando molti dubbi sul futuro alla popolazione. Se una parte di afghani sta cercando disperatamente di lasciare il paese, quelli rimasti, la maggioranza, aspetta con impazienza che le cose migliorino.
«Non c'è lavoro, non ci sono soldi. Io non mi oppongo ai taleban, ma non abbiamo di cui vivere» commenta Navid, 32, un tassista di Mazar-i-Sharif. L'economia è in stallo senza esportazioni e uno spazio aereo inagibile per via delle evacuazioni occidentali che hanno paralizzato il paese, la valuta è crollata, il prezzo della benzina è raddoppiato.
Una situazione che, insieme all'instabilità politica, soffoca gli afghani ancora di più: «Se prima guadagnavo 20 euro al giorno, oggi ne faccio un quarto» commenta invece Abdul Samad, 21, commerciante di tessuti in un mercato del centro città, mentre vende un tessuto a tre ragazze. A Mazar-i-Sharif le cose sembrano essere tornate alla normalità, anche se la gente dice che molte persone non escono di casa.
I negozi sono aperti, le persone sono per strada. Le donne e le ragazze sono vestite esattamente come prima, senza dove indossare chadori (burqa) e senza restrizioni. «Non sappiamo cosa succederà domani, soprattutto con le ragazze» è invece il commento di un anziano per strada. «Non essendoci ancora un governo, è difficile dire cosa faranno loro. Spero possa partecipare alla vita quotidiana e politica».
Ma un autista tuona: «Le ragazze non vanno più a scuola e le classi sono già separate». Chi critica lo fa a bassa voce. «Molti hanno paura dei taleban, nessuno parla», continua. È la situazione a creare incertezza: «Ora c'è molta più sicurezza. Prima dell'arrivo dei taleban era molto pericoloso. Speriamo anche che sia parallelamente uno sviluppo economico» dice un ausiliario del traffico, Mohammadullah, 38 anni, tornato a lavorare dopo che i taleban hanno richiesto la sua presenza.
Cosa che non tutti hanno fatto. «Io non sono tornato a lavorare», commenta un presentatore televisivo - «vogliono che mi faccia crescere la barba e che cambi. A me non va bene. E non credo alle loro parole».
I mujahid taleban sono forse l'attrattiva più interessante di questa nuova realtà. Per decenni sono stati un mito. In pochi li hanno potuti incontrare, parlarci e osservarli da vicino. Ora pattugliano le strade. Alcuni si vestono con equipaggiamento militare rubato dalle basi dell'esercito, ma la maggior parte indossa l'abito tradizionale, il peran tomban, di diversi colori, costantemente con mitragliatrici e giberne che traboccano di proiettili.
talebani bloccano l ingresso all aeroporto di kabul 2
Ai piedi hanno sandali, il viso incorniciato da barbe e capelli lunghi. Si spostano sui veicoli della polizia e dell'esercito afghano, che hanno sequestrato (secondo gli americani, i taleban sarebbero in possesso di circa 98 miliardi di dollari di materiale bellico Usa) e ai quali hanno aggiunto una bandiera taleban. Sono presenti anche nel santuario di Hazrat Ali, forse il luogo più sacro della città, dove donne, bambini e uomini passeggiano e si divertono. I taleban pattugliano. I più giovani fra loro scattano un selfie scherzando.
un bambino vende le bandiere dei talebani a kabul
«Siamo felici che l'Emirato islamico taleban abbia vinto. Ci sarà finalmente la pace» racconta uno di loro, giovanissimo. Forse troppo giovane per ricordare l'invasione Nato di 20 anni fa. Ma subito i comandanti si infastidiscono. I loro soldati non sono autorizzati a parlare.
afghanistan gruppo di talebani
«Non ci fidiamo di loro, hanno già commesso dei reati - commenta F., un altro ragazzo che vuole rimanere anonimo - l'altro giorno sono venuti nella nostra strada gridando che dovevamo andare in moschea e farci crescere la barba. Ora sono solo parole, ma sono sicuro che le cose si metteranno male non appena il paese uscirà dai riflettori dei media internazionali».
Riflettori che potrebbero spegnersi nei prossimi giorni, con la fine dell'evacuazione. È questa l'immagine che più colpisce: non sapere cosa succederà domani. E molti temono una recrudescenza del passato.