Carlo Pizzati per “la Stampa”
Mossa sorprendente, astuta, ma anche necessaria, la telefonata del premier giapponese Shinzo Abe al neo-eletto presidente Trump. E ancor più abile l'aver fissato un incontro tra una settimana a New York, il 17 novembre, per parlare di persona dei rapporti tra un Giappone che Trump ha spesso dipinto come «un concorrente economico» più che un partner, come uno scroccone che si difende dalla Cina con soldi e soldati americani, anche se Tokyo finanzia metà delle spese delle basi militari americane con i suoi 48 mila soldati.
Tema cruciale, quello di un Giappone che l'anno scorso ha votato per consentire le missioni dei suoi militari all'estero per la prima volta dalla Seconda Guerra mondiale. Un Giappone che si trova tra Scilla e Cariddi: la Corea del Nord con i missili nucleari, che spinge da Ovest; e la Cina che contesta la gestione nipponica delle isole del Mar Cinese Orientale, premendo da Nord.
A Trump, in campagna elettorale, è sfuggito un suggerimento drastico, che apre scenari di una corsa al riarmo destabilizzante per l'Asia: Giappone e Corea del Sud si arrangino e si paghino la loro difesa anche a costo di sviluppare armi nucleari. «Nukes, yes, nukes», ha detto.
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È la fine della claudicante «svolta asiatica» di Barack Obama messa a punto dall'allora «Madame Secretary» Hillary Clinton. Addio «Pivot to Asia», addio 60 per cento delle truppe americane in Asia per far muso duro con la Cina, addio accordi economici e sodalizi sotto l'egida americana. E buongiorno a che cosa? Se lo chiedono in molti, in Asia.
Trump l'isolazionista, quello dell'«America First», ha detto che «Pechino stupra l'economia Usa», ma ha accennato solo a possibili tasse sulle importazioni, alla peggio a sanzioni, ma mai a limitare la crescente presenza cinese nel Pacifico e nel Sud Est asiatico.
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Così, adesso, tutti a telefonare a Trump. Il presidente cinese Xi Jinping ha rotto il protocollo e lo ha chiamato subito: «Dò grande importanza al rapporto tra Cina e Stati Uniti», gli ha detto, «e mi auguro inizieremo presto a lavorare assieme per difendere i principi di non-conflitto, non-contrasto, rispetto reciproco e cooperazione reciprocamente vantaggiosa». La diplomazia cinese è contenta di trovare nella Casa Bianca un businessman che crede nelle transazioni e con cui è possibile fare affari per trovare accordi su temi che Hillary Clinton non avrebbe di certo considerato trattabili.
Essendo Trump un isolazionista, Pechino vede l'opportunità di potersi rafforzare regionalmente. Anche la Partnership Trans-Pacifica, accordo sponsorizzato da Obama per la collaborazione commerciale tra Paesi asiatici che avrebbe escluso la Cina, sembra destinata a fallire, come annunciato ieri dal presidente malese.
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L'India, vista la stretta amicizia di Modi con Obama, resta al momento un po' in sospeso, ma gli estremisti indù festeggiano chi ritengono sia un forte alleato contro il Pakistan e l'Islam, unico vero obiettivo di Trump in politica estera, cosa che preoccupa Indonesia e Malesia. Invece, i rapporti bilaterali con le Filippine sembrano ricuciti. «Non voglio più litigare, perché adesso Trump ha vinto», ha detto il «Trump filippino», il presidente Rodrigo Duterte che di recente aveva scavato una spaccatura con Washington.
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Trump ha spesso dichiarato che non è disposto a lasciare che l'America si sobbarchi costi economici per il controllo dell'Asia: non vuole fare «il poliziotto del mondo». Questa posizione dovrebbe preoccupare Park Geun-hye, presidente della Corea del Sud dove si trovano 28 mila e 500 truppe americane. Ma Trump le ha parlato al telefono per 10 minuti dicendo che è determinato al «100 per cento» a rafforzare i legami tra i due Paesi e che continuerà a lavorare a stretto contatto con Seul per garantire la sicurezza di entrambe le nazioni. Accordi bilaterali, rassicurazioni, ma da parte di un'America che promette già di alleggerire la sua presa su un continente, a favore della Cina.
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