Antonio Riello per Dagospia
Sui muri non spuntano solo le silhouette dei mufloni, degli elefanti e delle scimmiette create dal misterioso Banksy (come al solito non è mai certissima la paternità di questi interventi). Si vedono, scarabocchiate o sprayate, scritte decisamente molto più inquietanti. Slogan direttamente legati ai tremendi disordini che da giorni affliggono l’Inghilterra. Non è solo la loro violenza che spaventa.
La tipologia di queste sommosse e il numero non irrilevante delle persone coinvolte lasciano davvero esterrefatti. Un tacito accordo ha avvolto per decenni il linguaggio della politica e dei media da questa parte del Canale della Manica: inclusività, tolleranza ed integrazione venivano considerati come dei teoremi indiscutibili. Almeno dai tempi di Tony Blair la convivenza multiculturale (e multietnica) è stata il principale “valore condiviso”.
Un traguardo ampiamente acquisito per la società britannica. Quello che sta succedendo in questi giorni (con i suoi evidenti risvolti di criminale destabilizzazione) è qualcosa di lacerante. Non è, per fortuna, una “guerra civile” (come insinua Elon Musk) ma in qualche modo mette in discussione l’immagine che il popolo britannico ha di sé stesso. E il probabile coinvolgimento da parte di potenze straniere (ovvero: Federazione Russa) non basta a consolare gli animi. Tira insomma una brutta aria nel cortile di casa. C’è in giro una inaccettabile puzza di razzismo e di islamofobia.
Per onestà intellettuale va detto l’idillio della convivenza era purtroppo già incrinato. Il “Vaso di Pandora” era stato aperto nei mesi scorsi quando parecchie minacciose manifestazioni, apertamente più pro-Hamas che pro-Palestina, hanno creato un clima di paura che ha notevolmente isolato e intimidito la piccola (ma importante) componente ebraica che vive nel Regno Unito.
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Molti intellettuali hanno purtroppo fatto finta di non vedere questo allarmante ed eclatante segnale. Timorosi di non apparire abbastanza “progressisti” hanno dimenticato la Storia: l’intolleranza in una società europea inizia quasi sempre con qualche forma di antisemitismo (anche la stessa BBC su questa emergenza ha avuto atteggiamenti piuttosto distratti e ambigui).
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E a tutto ciò va aggiunta l’infelice e goffa affermazione pubblica del nuovo governo che appena insediato afferma: “non ci sono più posti nelle carceri del Regno, bisognerà che la polizia vada cauta con gli arresti e una amnistia comunque è inevitabile”. Una involontaria, ma chiarissima, luce verde per chiunque avesse avuto cattive intenzioni (di qualsiasi tipo e genere: è il caso questi estremisti di destra).
Questa è la “cornice ambientale” per riportare brevemente un interessante (e quasi “audace”) articolo/commento appena apparso sul TIMES con la firma di Laura Freeman, la responsabile delle Arti Visive del quotidiano. La giornalista descrive come il contesto dell’Arte in Gran Bretagna negli ultimi vent’anni si sia arroccato in modo unanime su posizioni di militanza progressista abbastanza estrema.
Con innumerevoli episodi di attivismo esplicito nell’ambito della sinistra più radicale. Il problema non sta di certo nelle (sempre) onorabili opinioni militanti ma nel fatto che con il tempo, un po’ alla volta, tale atteggiamento si è fossilizzato, fino a divenire l’unico naturalmente possibile. Ovvero: ci si è posizionati in una (bella ed elegante) bolla autoreferenziale che finisce per ignorare (parte) della realtà sociale ed economica.
Esempio: i fondi per finanziare le attività dei musei da parte delle aziende sono stati fortemente demonizzati (sostenibilità ambientale, investimenti nel campo degli armamenti, etc. etc.) preferendo il sostegno pubblico. Il problema è che anche questo governo Labour - molto largo di promesse per la Cultura in fase elettorale - deve seriamente fare i conti con bilanci in grave difficoltà (non ci volevano dei geni della finanza pubblica per immaginarlo).
Così alla fine se le istituzioni culturali britanniche vorranno sopravvivere dovranno chiedere sostegno all’odiato e disprezzato capitalismo. L’Utopia è sempre tremendamente affascinante, ma ci vuole poi qualcuno che paghi la bolletta della luce. E ancora, scrive la Freeman, mai dare per scontato che la visione della propria “Tribù Culturale” sia sempre, comunque e solo quella “giusta”.
Nello specifico la giornalista sostiene che il deciso sostegno dato nelle ultime elezioni alLabour da parte della totalità del mondo della Cultura potrebbe contenere delle amare delusioni. Non basta il mantra della fluidità di genere (soprattutto nei suoi accenti più esasperati) o quello di un ideale sostegno incondizionato a qualsiasi istanza anti-Israeliana (“a prescindere”, come direbbe il nostro Totò) per riempire i musei di visitatori pieni di entusiasmo.
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O anche semplicemente per “fare Arte”. Tendiamo automaticamente un po’ tutti a bollare come “barbari incolti” tutti quelli che non guardano il Mondo nello stesso nostro modo. Ma è un atteggiamento non scevro da insiti pericoli. Le migliori ideologie - senza la necessaria capacità autocritica - possono correre il rischio di trasformarsi in atteggiamenti paternalistici, retoricamente pedagogici e paradossalmente non-inclusivi. Insomma, secondo la Freeman, i direttori dei musei britannici dovrebbero iniziare a considerare che alcuni dei loro visitatori possano avere delle opinioni (almeno, sia concesso, per qualche sfumatura) diverse dalle loro.
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