Stefano Montefiori per il “Corriere della Sera”
«Ho davvero creduto di poterla battere». Questa frase amara Jean-Luc Mélenchon l'ha pronunciata tante volte nella sua lunga carriera politica. Anche domenica notte, a urne chiuse da ore, quando lo spoglio dei voti gli ha regalato un'ultima crudele speranza.
All'improvviso, attorno alla mezzanotte, è sembrato che il leader della sinistra radicale potesse sorpassare Marine Le Pen, già sicura della qualificazione al ballottaggio. Sarebbe stato un colpo di scena clamoroso, lui è uscito dal Cirque d'Hiver per salutare con il pugno chiuso la folla pazza di gioia che gli gridava merci!, come se questa potesse essere la volta buona. Invece, Le Pen 23,1%, Mélenchon 21,9%.
La rincorsa della tartaruga, come Mélenchon ama definirsi, si è fermata a un passo dal trionfo. Per il settantenne ex impiegato delle poste, correttore di bozze, giornalista, insegnante di francese e ministro socialista, il nome Le Pen al secondo turno è un incubo che dura da vent' anni.
Quando il 21 aprile 2002 Jean-Marie Le Pen si piazzò davanti al socialista Lionel Jospin e arrivò inaspettatamente al duello finale contro Jacques Chirac, Mélenchon non la prese bene. Cadde in depressione, «piangevo di continuo, il corpo non ce la faceva più, non riuscivo a lavorare».
Ma quella fu l'occasione di una delle tante rinascite: Mélenchon smise di fumare, si dedicò all'agopuntura e alla pittura di paesaggi, e si dette una missione esistenziale e politica: battere Le Pen.
All'elezione presidenziale del 2012, la prima per entrambi, Mélenchon arriva quarto dietro all'erede del partito di estrema destra. Secondo tentativo nel 2017, ma anche stavolta Mélenchon non ce la fa: arriva terzo, dietro a Marine Le Pen che si qualifica al ballottaggio per soli 600 mila voti. Quei 600 mila voti mancanti sono stati l'incubo degli ultimi cinque anni. Terza corsa all'Eliseo domenica: stavolta le schede che lo separano da Le Pen sono appena 400 mila, ma bastano a tenerlo lontano dalla sfida decisiva del 24 aprile contro Macron.
l'ultimo discorso di jean marie le pen al parlamento europeo 6
Tutto separa Mélenchon dalla grande rivale: lui è nato nel 1951 a Tangeri, in Marocco, da un impiegato delle poste e un'insegnante entrambi originari dell'Algeria francese; lei nel 1968 nel sobborgo chic parigino di Neuilly-sur-Seine, e ha ereditato non solo il partito ma anche gli agi del padre Jean-Marie.
Mélenchon stavolta però si pone come una specie di beautiful loser , è lo splendido perdente di queste elezioni.
Sarà decisivo per designare il vincitore finale - e lui ha subito chiarito che «non un solo voto dovrà andare a Marine Le Pen» -, e poi ha trovato i toni giusti nel discorso di accettazione della sconfitta, davanti ai tanti giovani che lo adorano riuniti al Cirque d'Hiver: «Ho il dovere di dirvi, visto che sono il più anziano, che l'unico nostro compito è quello del mito di Sisifo: il macigno ricade, e noi allora lo spingiamo di nuovo su (...). Non siete né deboli né privi di mezzi, potete combattere questa battaglia, e la successiva, e quella dopo ancora! Guardate me, non ho mai mollato, non ho mai abbassato lo sguardo. Ora tocca a voi».
Capace di paurosi scatti di collera passati alla storia - come quando urlò «La repubblica sono io!» in faccia al poliziotto venuto a perquisire la sede del partito della France Insoumise -, e di molti sorrisi affettuosi, a 70 anni Mélenchon è il nonno burbero che affascina i nipoti. Se votassero solo i giovani tra i 18 e i 24 anni, Mélenchon sarebbe largamente il presidente della Francia. I video efficaci e divertenti su TikTok e Instagram e anche l'appoggio in extremis all'Ucraina sono riusciti anche a mettere in secondo piano una vita di alleanze internazionali regolarmente sbagliate, dal Venezuela di Chávez alla Russia di Putin.
La lotta contro le diseguaglianze, il sogno di un mondo meno spietato, l'idea un po' improvvisata della «creolizzazione», del miscuglio di etnie da contrapporre all'ossessione identitaria di Le Pen e Zemmour, hanno fatto di Mélenchon il più votato non solo tra i giovani ma anche nella regione dell'Île de France, quella di Parigi, la più ricca di Francia ma anche la più attraversata da tensioni tra centro e periferia, e tra maggioranza e minoranze etniche. «Vado a votare per lei», gli ha detto domenica Emmanuelle Béart quando lo ha incontrato sul treno da Marsiglia (dove è deputato) a Parigi. Lui, quasi sordo dalla nascita, le ha sorriso dopo avere letto le parole sulle labbra, come fa sempre. «Ma la sordità per me è un vantaggio - si è confidato una volta -, mi tiene più all'erta. E chi mi parla non sa con chi ha a che fare».
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