Marco Conti per Il Messaggero
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Nel prezzo da pagare per risalire la china dei rapporti con Washington dopo le porte aperte ai cinesi con la Via della Seta, ci sono le informazioni chieste dal ministro della giustizia William Barr su una possibile partecipazione italiana al Russiagate, il rapido completamento del Tap, il via libera definitivo all'acquisto degli F35 e la chiusura delle porte al 5G di Huawei in modo da partecipare, come scriveva ieri il Financial Times, alla costituzione di un colosso europeo tra Nokia e Ericsson in grado di competere con i cinesi.
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Malgrado la fine del governo gialloverde, Oltreoceano resta forte la diffidenza sulla fedeltà atlantica dell'attuale governo. Giuseppe Conte la ribadisce in ogni occasione, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella tra pochi giorni sarà a Washington per incontrare il presidente Trump anche per parlare di dazi, ma su molti dossier gli americani attendono ancora risposte.
Per i più esperti evocare, e paragonarsi, al Bettino Craxi di Sigonella, come ha fatto Conte ieri l'altro sul Corriere, non è detto che sia di buon augurio. Ieri il presidente del Consiglio, partecipando alla cerimonia per il giuramento dei neoassunti nella sede del Dis di piazza Dante, ha difeso il proprio operato e quello dei vertici dell'intelligence definiti «presidio della democrazia», dopo aver promesso una sorta di repulisti interno per le presunte fughe di notizie.
Dopo giorni di polemiche, a palazzo Chigi si cerca di gettare acqua sul fuoco sulla faccenda e si tira un sospiro di sollievo per l'arrivo di un presidente «responsabile ed equilibrato» alla guida del Copasir. La tensione è però ancora forte nella maggioranza e Conte si difende tirando in ballo il Quirinale che sarebbe stato informato da palazzo Chigi delle richieste americane. Il lungo tira e molla interno al centrodestra si è concluso ieri sera dopo un vertice tra Matteo Salvini e Giorgia Meloni.
FdI ha fatto un passo indietro su Adolfo Urso, in cambio - forse - di un passo indietro in Emilia Romagna della Lega. Oggi l'opposizione indicherà per la presidenza il leghista Raffaele Volpi che dovrà subito decidere quando convocare il presidente del Consiglio e il capo del Dis Gennaro Vecchione che dovranno spiegare come sono andate e chi ha autorizzato la partecipazione dei vertici dei servizi italiani all'incontro con il ministro della giustizia americano Barr.
Conte continua a sostenere che non occorre nominare un sottosegretario con delega ai Servizi perché tanto «la responsabilità è in capo al presidente del Consiglio». La legge non lo obbliga, ma aver mandato degli alti funzionari dell'intelligence italiana a parlare con un politico americano, fa storcere il naso a molti.
Questa è però stata una scelta che Conte difende sostenendo, come ha fatto ieri che «non è concepibile che l'intelligence si muova al di fuori del controllo parlamentare e dei compiti che il governo le assegna». Non solo, per rispondere alle punzecchiature di Matteo Renzi, che lo invita a dotarsi di un'autorità delegata - come fece l'ex premier nominando Marco Minniti - a palazzo Chigi tira in ballo - come già detto - il Quirinale informato, probabilmente, a cose fatte.
Il caos comunicativo che sulla questione affligge palazzo Chigi, con smentite notturne e continue rincorse, è la conferma del nervosismo del premier per essersi infilato in un tritacarne che lo costringe ad un complicato equilibrio tra le sempre più pressanti richieste di Trump - rinnovate ieri per lettera da Lindsey Graham, presidente della commissione giustizia del Senato e uno dei più stretti alleati del presidente Usa - e la lunga consuetudine di rapporti con gli Stati Uniti che distingue tra intelligence, politica e diplomazia.
Seguire il consiglio di Renzi, è per Conte complicato perché significa dover ammettere l'errore, ma non sarà facile restare nel tritacarne, senza ferirsi, in attesa che prenda quota una versione del Russiagate diversa da quella del procuratore Usa Roberto Mueller e che tirerebbe in ballo i governi del Pd di Renzi e Gentiloni.